La nuova era criminale nella Sibaritide. «Se una cosa è chiesta è mezza pagata»
Secondo il modus operandi attuato dai clan, la «domanda formulata era la moneta da pagare, e la consegna era dovuta»

COSENZA Gli imprenditori cedono alle richieste dei clan, qualcuno tenta una timida resistenza salvo poi acconsentire all’ennesima richiesta di denaro. I clan Forastefano e Abbruzzese, egemoni nella Sibaritide, impongono la legge criminale sul territorio di competenza: dalle estorsioni al narcotraffico. Questa comunione di intenti, un tempo resa impossibile da una sanguinosa faida, segna la nascita di «una nuova era criminale». Le due famiglie, contrapposte e rivali, si riscoprono alleate. Le frizioni fanno parte del passato, si superano, perché gli affari devono essere portati avanti nonostante le operazioni di polizia, gli arresti, le decapitazioni dei vertici criminali. I colpi assestati dalla Dda di Catanzaro scuotono le cellule criminali, ma i clan – sebbene azzoppati – sarebbero riusciti a rigenerarsi mantenendo saldo il controllo dei business illeciti. Nelle motivazioni della sentenza emessa al termine del processo, celebrato con il rito abbreviato, scaturito dell’inchiesta “Athena” emerge – per i giudici – la parziale o totale incapacità da parte di alcuni imprenditori di denunciare le richieste estorsive ricevute.
Le «estorsioni ambientali»
Sono gli stessi imputati che dichiarano di agire «secondo un preciso diktat» che li porta ad autoassolversi: «se una cosa è chiesta è mezza pagata». Secondo il modus operandi attuato, la «domanda formulata era la moneta da pagare, e quindi la consegna era poi dovuta». Insomma, la classica offerta che non si può rifiutare. Chi indaga cristallizza vicende ed episodi, annota reazioni e resistenze delle persone offese che dinanzi ad un eventuale rifiuto avrebbero subito «atti di lesione e danno». Da quelle parti e con la pressione delle potenti famiglie gravitanti nell’orbita criminale bruzia, l’estorsione diventa quasi una consuetudine. Gli uomini della Distrettuale catanzarese la definiscono “ambientale”. «Chiedono e quindi per loro stanno già pagando tutti quei quintali di frutta che gli imprenditori della zona davano loro; a nulla vale che alcuni di loro emettevano fattura, a nulla vale che alcuni per fronteggiare la perdita si erano permessi di nascondere fra le pesche date qualche parte di raccolto di minore qualità». Le telefonate captate mostrano come gli interlocutori non chiedessero «se vi fosse della frutta che poteva essere consegnata», ma «solo per avvisare che erano già alla porta per prelevare quello che volevano, del tipo desiderato, nella quantità pretesa».
La pervasività del clan
Un dibattito appena accennato, un fuoco fatuo alimentato per qualche settimana da comunicati stampa, aveva riacceso i riflettori sulla possibilità di dar vita alla provincia della Sibaritide. Le voci si perdono nel vuoto mentre il territorio viene costantemente minacciato da roghi, intimidazioni, aggressioni e agguati. Segni tangibili di una situazione diventata per anni insostenibile. Una terra ridotta ad una «polveriera» per citare il bravo pm della Dda di Catanzaro Alessandro Riello. Il pubblico ministero, impegnato a sostenere l’accusa anche nel processo sul duplice omicidio Scorza-Hedli, aveva parlato di una «‘ndrangheta che sta mettendo a ferro e fuoco la Sibaritide».
Va da sé che gli investigatori – impegnati nell’operazione “Athena” – abbiano deciso di percorrere il groviglio di strade che conduce alla frazione Lauropoli e spalanca le porte del quartiere popolare “Timpone Rosso“, diventato roccaforte della criminalità. Ogni angolo, ogni vicolo, è stato sorvegliato grazie alle intercettazioni, in particolare telematiche, che hanno permesso di costruire solide prove necessarie a cristallizzare molti dei reati commessi dagli imputati. (f.benincasa@corrierecal.it)
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