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IL RACCONTO

La strada che porta a Polsi. Una metafora della Calabria

Polsi è il luogo che può liberarci dall’idea che il Sud, la Calabria sarebbero una patologia della modernità

Pubblicato il: 01/09/2025 – 11:41
di Francesco Bevilacqua*
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La strada che porta a Polsi. Una metafora della Calabria

La prima volta che vidi la chiesa affondata nel cuore della valle fu agli inizi degli anni ’80. Mi recavo a Polsi, in Aspromonte, percorrendo la lunga e sconnessa strada che dopo aver valicato il centro del massiccio, a quasi 1900 metri di quota, poco sotto la cima del Montalto, s’inabissa, con un’infinita teoria di tornanti, sino al santuario, mille metri più in basso. Guidavo cautamente, circondato da burroni franosi e paesaggi estatici. Ad una curva destrorsa fermai l’auto e scesi, spostandomi oltre l’orlo stradale. Apparve lontano, centinaia di metri sotto di me, il grumo di case del santuario mariano incorniciato fra pini e querce pencolanti dalle rupi. Con il pesante registratore a nastro affidatoci dalla RAI della Calabria, per la quale all’epoca facevamo una trasmissione radiofonica, dovevamo intervistare i pellegrini di quello che all’epoca era uno dei luoghi più misteriosi e malfamati d’Italia. Giungemmo di pomeriggio. I fedeli erano quasi tutti ripartiti per i paesi. I clamori delle preghiere, dei canti, dei balli erano terminati e fra le viuzze aleggiava un’atmosfera di sospensione temporale, con i banchi delle macellerie improvvisate, la carne di capra sanguinolenta, le pelli stese fra i sassi del fiume rumoreggiante o appese ai grandi castagni. Vi incontrammo fortunosamente Otello Profazio, seduto su un muretto che ci raccontò dell’unicità di quell’esperienza che ripeteva ogni anno e che sosteneva essere essenziale per comprendere la Calabria.
Ricordo l’amicizia con l’allora priore don Pino Strangio, con il quale, un anno, organizzammo una pulizia straordinaria dell’area del santuario e del fiume, aiutati dai volontari del WWF e degli scout. E quella con mons. Ciliberti, vescovo di Locri fra il 1988 ed il 1993, che ci ricevette quando si trattava di impedire la costruzione di una devastante superstrada che da Bovalino avrebbe dovuto risalire su enormi piloni la fiumara Bonamico. Ricordo ancora quando accompagnai a Polsi il mio vescovo dell’epoca, mons. Cantafora, per concelebrare messa con il successore di Ciliberti, mons. Bregantini: era atteso per i giorni successivi anche un cardinale e una squadra di operai stendeva in tutta fretta un precario manto d’asfalto sullo sconnesso fondo stradale. Ricordo le polemiche quando le autorità vietarono la tradizionale macellazione sul posto delle capre. Ricordo le escursioni e i pellegrinaggi a piedi da San Luca, da Vocale, dalla Via dei Riggitani, lungo il corso della Bonamico.
È di questi giorni la polemica per la decisione delle autorità di impedire temporaneamente l’accesso a Polsi (la tradizionale festa si celebra il 2 settembre). Le cause sarebbero una frana abbattutasi sulla strada e non riparata in tempo ed il mancato completamento di lavori di consolidamento statico della chiesa. Non è stato possibile trovare una alternativa condivisa per consentire le celebrazioni, con grande disappunto per i fedeli. Sui giornali, sempre in vena di sensazionalismi, è saltato fuori, per l’ennesima volta, il pregiudizio secondo cui il santuario sarebbe ostaggio della malavita: è vero che nella confusione della festa si tenevano riunioni di mafiosi, ma questo non può valere a bollare in eterno un luogo di culto e la sua gente.
Ora, è bene sapere che giungere al cospetto della Madonna della Montagna – per devozione, per voto, per chiedere grazie, per tradizione, per ribellione alla perdita di memoria, per riaffermare un’identità perduta – è sempre stata una piccola impresa, con le sue fatiche, i suoi pericoli. Sin da quando vi si andava rigorosamente a piedi, con giorni di cammino. Viste le condizioni dei luoghi la decisione di interdire l’accesso era difficilmente evitabile. Quelle che invece erano evitabilissime sono le cause della decisione: sarebbe bastato programmare per tempo e svolgere con urgenza i lavori di ripristino della strada per impedire una scelta così drastica e dirompente, soprattutto per San Luca. Si sarebbe così evitata anche la ripetizione degli stereotipi su “Polsi e San Luca uguale ‘ndrangheta”, con il corollario di diffamazione indistinta rivolta ad un intero popolo. Qualcuno ricorderà il libro curato da Filippo Veltri e Diego Minuti, uscito nel 1990, che raccoglieva le lettere di improperi a San Luca ed ai suoi cittadini all’epoca dei sequestri di persona. Per l’ennesima volta si è persa l’occasione di agire con serietà e consapevolezza da parte delle amministrazioni coinvolte. Consentendo, così, ai diffamatori seriali di gettar fango su Polsi e su San Luca.
Ma Polsi non ha mai preteso di divenire un luogo adatto a tutti: chi si gloria di possedere una mentalità “illuministica” è meglio che vada altrove; chi vuol vedere il folklore ha tanti altri luoghi dove può farlo; chi vuol tenersi i suoi pregiudizi può tranquillamente starsene a casa. Gli altri, invece, possono provare a capire e magari a vivere un’esperienza unica, che resterà dentro di loro per sempre. Come accadde a me. Quando osservo i pellegrini, i loro volti sofferenti, contriti, estatici, quando assito alla parte panica della festa, i balli, i suoni, le libagioni, perfino quando vedo gli eccessi del caos, io non giudico, non penso in termini di moralismo d’accatto. Cerco di immedesimarmi, invece, in quel bisogno di un riferimento, di un segno, di una speranza, di un po’ di contentezza. Cerco di capire perché quella prima volta provai smarrimento, vertigine, “timore e tremore”, per utilizzare parole di San Paolo e di Kierkgaard che attengono alla sfera del sacro; parole che i riduzionisti ed i razionalisti non potranno mai capire. E mi sovvengono le descrizioni del pellegrinaggio e dei riti a Polsi di un Alvaro, di un Francesco Perri, di un Fortunato Seminara, intrise di commozione e di umana comprensione.
Mi piace la metafora che usò mons. Ciliberti quando ci incontrammo. Mi disse: “Polsi è un utero rovesciato”. All’inizio non capii a cosa alludesse. Poi decifrai quel messaggio, secondo il mio cuore. Un utero rovesciato (o retroverso) è inclinato all’indietro anziché in avanti. Dunque è simbolo di alterità, di diversità. Ma un utero rovesciato non è, come comunemente si crede, una patologia, non compromette la fertilità, non è causa di aborti. La medicina ha impiegato decenni a sfatare la presunta malattia dell’utero retroverso (così si chiama in medicina) ed a convincere le donne che ce l’anno che non sono malate. E Polsi è esattamente questo: il luogo che può liberarci dall’idea che il Sud, la Calabria sarebbero una patologia della modernità, come direbbe Franco Cassano. E il luogo che ci tiene legati, costantemente, istantaneamente, alla nostra storia, al nostro modo di vedere il mondo, ai nostri vizi ma anche alle nostre virtù. È il luogo dove si conserva quel granello di speranza che ancora resta in una terra disperata come la Calabria.

*Avvocato e scrittore

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