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la riflessione

Polsi come luogo del senso e metafora di un’altra Calabria

Una nota di viaggio a Polsi, dove le persone rivelano ancora intensi sentimenti, la metafora di una nuova centralità e di un nuovo bisogno di sacro e di appaesamento

Pubblicato il: 02/09/2025 – 16:40
di Vito Teti
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Polsi come luogo del senso e metafora di un’altra Calabria

Non ricordo con precisione le volte che, a partire dal 1977, mi sono recato al santuario della Madonna della Montagna. Almeno in sei occasioni sono andato a Polsi a conclusione dei festeggiamenti in onore della Madonna, l’1 e il 2 settembre. Tante per potermi considerare, non solo un osservatore delle culture popolari, ma una sorta di pellegrino. Molte volte, di ritorno da Polsi, mi sono trovato a ripetere che quella era l’ultima volta. Poi, col passare del tempo, riaffiora la nostalgia di Polsi, opprimente come un rimorso, forte come un sogno.

Questa volta percorro a piedi l’ultimo tratto del viaggio, lungo uno dei sentieri delle antiche «vie dei canti» oggi recuperati al cammino dagli escursionisti e dall’Ente Parco dell’Aspromonte. Sotto il Montalto ci incamminiamo lungo la «pista dei riggitani». Saluto i colleghi del gruppo di ricerca dell’Università, che proseguono in macchina, e scendo in compagnia di Alfonso Picone Chiodo, responsabile del Cai della provincia di Reggio, ricercatore informato di ogni pietra e di ogni albero, Nuccio Barillà, del direttivo nazionale di Legambiente, Fulvio Librandi, antropologo dell’Università della Calabria. Da quota 1300 metri a 850 metri circa la vegetazione muta continuamente. Si passa dai boschi di pini e di querce ai grandi lecci per arrivare ai castagni. Erica, rosa canina, elci, origano seguono il tragitto dei muretti di pietre e delle piste precarie. Le querce colpite e scolpite dai fulmini, con i loro tronchi sembrano quasi delle enormi canoe annerite dal fumo, in attesa di qualche misterioso navigatore le adagi nel mare delle nuvole che sovrastano le cime dei monti.

Lo sguardo è catturato dalle piccole vene di terra tracciate nelle montagne, le antiche vie dei pellegrini, che ancora oggi vengono percorse ai piedi. Ecco la ferita nella montagna di Samo e il sentiero degli antichi abitanti di Precacore. Sono visibili le piste lontane degli abitanti di Careri e di Natile (ricordati da Perri) e quella degli abitanti di S. Luca (raccontati da Alvaro) lungo il lago Costantino, formatosi a seguito di una frana sul percorso del Bonamico. Intuisco il luogo dove scorre la fontana della Pregna, dove una donna incinta, assetata, pregò la Vergine, che fece sgorgare dalla pietra l’acqua fresca e limpida. Svettano come un pugno impastato di pane e un dito alzati nel cielo Monte Cappa e Monte Castello e poi, in fondo, lontano, lo Ionio.

Bisogna camminare a piedi per comprendere le storie e i movimenti degli uomini. Dall’alto, mentre cominciano a sbucare gli orti coltivati e le baracche in prossimità di Polsi, hai la sensazione che questo centro religioso sia stato in passato un centro necessario, ragionevole, di economie e di scambi. La geoantropologia e le vicende storiche, le economie e le culture di paesi disseminati lungo le colline del versante tirrenico e di quello jonico qui realizzavano una sorta di convergenza al «centro».

Sentiamo dopo quasi tre ore di discesa tra pietre, eriche e felci i rumori della festa. Le prime voci che arrivano in alto quelli dei giochi di morra con i loro: «… e uno, …e quattro, …e sette…». Ascoltato da quassù quell’elenco urlato di numeri fa pensare quasi a una formula magica che bisogna pronunciare con forza e sapienza per poter entrare in un paese a magico e favoloso. La porta della «strada dei riggitani» introduce nei luoghi in cui i pellegrini di tanti paesi hanno fatto erigere, in pietra e in marmo, una stazione della Via Crucis. La visione giunge forte come uno schiaffo, come un pugno di terra. Comprendiamo le ragioni di quel vagare tra i monti di un elicottero che si abbassava nel lago Costantino e di quel sottile filo di fumo che saliva il cielo. L’incendio è scoppiato in mattinata, voluto, provocato. Ha bruciato i grandi ed antichi castagni, vere e proprie sculture della natura, ma ha ferito il cuore delle persone.

Nelle loro omelie monsignor Giancarlo Bregantini, vescovo di Locri-Gerace, e don Pino Strangio, rettore del Santuario, adopereranno parole di forte condanna per chi non ha rispetto per questo «sacro Giardino». Il primo uomo che incontro indossa una maglietta con la scritta Toronto. Mi vengono in mente i calabresi che, poche settimane fa, ho visto a Toronto impegnati con le loro feste a sacralizzare e a rifondare nuovi luoghi.

Antichi e nuovi comportamenti devozionali

Lasciamo borse e buste nella stanza del dateci da don Pino, sempre accogliente, sempre indaffarato con i suoi collaboratori ad organizzare e risolvere mille problemi. Comincio il mio itinerario attorno al santuario, nella chiesa già piena di pellegrini (sono le sei della sera), tra le stanze e gli spiazzi restaurati o in via di restauro. Quando ritorno nei luoghi, quando rincontro persone che non vedo da tempo, la tentazione è quella di verificare come sono riconoscibili al mio sguardo: sono alla ricerca di segni e di indizi per capire cosa è cambiato e cosa è rimasto.

Cammino lungo la fiumara della Madonna, arrivo là dove incontra la fiumara di Castunia e insieme danno origine al Bonamico. L’acqua delle fiumare non è più rossa del sangue delle bestie scannate da macellai-sacrificatori che compivano un rito antichissimo. Dopo l’intervento dei Nas del 2001 che (al di là delle motivazioni) è stato visto come una sorta di intrusione e di violenza da parte di tutti i devoti e dalle gerarchie religiose, i macellai di S. Luca si sono organizzati. Macellano in paese e portano gli ovini in una baracca dove è organizzata la vendita. È notevole il consumo della carne di capra, di capretto, d’agnello. Polsi non è più un’ enorme cucina, come ai tempi di Alvaro. ma permane il senso della comunione del cibo, del mangiare insieme. Molte baracche sono state costruite lungo due file in vicinanza della fiumara. Sono in legno, tutte uguali, e una volta ultimate accoglieranno i venditori con le loro mercanzie, con gli oggetti sacri, con i panini e le bibite. Centinaia di giovani si aggirano attorno al santuario. Sono gli stessi che incontriamo al mare e ai concerti, nei paesi e alle Università. I figli e i nipoti degli antichi pellegrini, compiono gesti, danze, riti diversi da quelli dei padri.

Dalla vallata non salgono più verso la montagna i rumori dei fuochi, degli spari, dei canti, delle danze, come avveniva ancora qualche anno addietro. Nell’anfiteatro naturale si diffondono, attraverso gli altoparlanti e gli amplificatori, le preghiere, le omelie, i canti, le prediche delle funzioni religiose. I pochi gruppi di suonatori e di danzatori di tarantelle stentano a trovare un orientamento, un senso e un ritmo in mezzo a rumori di fondo che li sovrastano. È cambiata Polsi, sono cambiati i pellegrini, i volti, i gesti, la ritualità. Non è una novità. L’erosione dell’antico universo continua da almeno cinquant’anni. Non poteva essere altrimenti in un mondo che cambia continuamente e velocemente. Incontro vecchi amici, alcuni studiosi di culture popolari, fotografi e giornalisti. Il ritornello è lo stesso: «Stanno distruggendo tutto. Non ci sono più le tradizioni di una volta. Non si balla più come una volta». Come se questo luogo dovesse restare immutato, incontaminato (da chi e da cosa?), una riserva in attesa di studiosi puristi e nostalgici di un bel passato mai esistito. Gli operatori delle televisioni (Anna Rosa Macrì ha fatto due bellissimi servizi per il Tg3) e delle radio, fotografi e giornalisti, studiosi e curiosi vanno considerati loro stessi elementi del rito, della «realtà». Spesso sono loro, siamo noi, i protagonisti di un «nuovo folklore».

Ma se risultano sterili i rimpianti di chi non appartiene a quel mondo ormai eroso, non è possibile ignorare gli stati di animo di quanti a Polsi vengono fin da bambini e che hanno assistito, a volte compiaciuti, a volte sgomenti, a volte lieti, a volte inquieti, alla fine del loro antico universo. Traduco gli interrogativi che si ponevano molti amici del luogo, tanti pellegrini incontrati. Con la strada che è ormai in via di realizzazione (se ne parlava dai tempi di Alvaro, ma adesso sembra che, finalmente, una delle tre verrà ultimata), che consentirà viaggi e soste rapide, con la chiusura delle vecchie baracche e la fine delle residue tracce di una cucina del sacrificio, con la progressiva scomparsa degli antichi maestri da ballo e il ridursi dei gruppi dei suonatori, che non trovano un ambiente favorevole alla loro espressività, con la fine di antiche forme di devozione popolare progressivamente sostituite da nuove ritualità affermate nel corso delle funzioni religiose, con tutti questi cambiamenti Polsi non rischia di diventare un luogo di culto simile agli altri? A furia di cambiare, di pulire, di sfrondare e di innovare Polsi non si sta trasformando in uno di quei posti sfiorati frettolosamente da quelle nuove figure di turisti religiosi per cui un luogo vale un altro? Qualcuno si chiedeva se le antiche ritualità sacre e profane possano e debbano essere «sostituite» con manifestazioni (come il ballo dei giovani seminaristi portato avanti, tra gli applausi e gli osanna, di centinaia di giovani nel corso della messa serale all’aperto) colorate mutuate dagli spettacoli televisivi o da forme devozionali affermatesi in altri contesti. Queste domande non hanno soluzioni belle e confezionate. Interrogano in maniera profonda e diversa tutti noi.

Penso che l’alternativa, tuttavia, non possa essere: conservare ad oltranza o innovare comunque. Non esiste una «tradizione» che non sia anche mutamento. Il problema, se mai, è come realizzare i cambiamenti, in nome di cosa, con quale finalità, con quale attenzione per la storia, la natura, le emozioni delle persone. Con quali «materiali» restaurare, recuperare, costruire? Di quali «simboli» parlano i materiali adoperati? È possibile innovare senza devastare, cancellare luoghi, saperi e sentimenti? Le ritualità tradizionali, ormai desuete e scomparse, davvero debbono essere «sostituite» o arricchite con quelle manifestazioni folkloristiche deteriori che rendono la Calabria subalterna rispetto a modelli omologanti esterni che non hanno alcun legame con la storia e le tradizioni dei luoghi? Saranno, infine, i tanti partecipanti alla feste e ai riti (portatori di molteplici punti di vista e di differenti aspettative) che sceglieranno le maniere più adeguate e sentite di manifestare la propria fede.

Il vescovo, nel corso delle messe e delle funzioni religiose, che lo vedono sempre partecipe, parla una nuova spiritualità da affermare in questo luogo. Mi sembra che abbia il passo lento e lungo, monsignor Bregantini, del camminatore antico e di montagna, consapevole che la strada è tanta e bisogna avanzare con cautela, senza strappi, senza dimenticare il cammino compiuto, sapendo dosare le forze, con rispetto di tutto quello che s’ incontra nel viaggio, raccogliendo soltanto quanto sarà utile per domani, ignorando i rami inutilizzabili. E tuttavia senti che il «progetto complessivo» e le esigenze di fondo sono davvero di grande respiro, guardano lontano, camminano con i piedi per terra, anche con tanti fatti concreti. La montagna ritorna come centro di una nuova religiosità (come all’epoca dei monaci basiliani), di un rinnovamento etico e spirituale. E’ la montagna che fa vivere il mare, non viceversa. Non ci sarà una nuova Calabria, mi dice il vescovo, se si spopoleranno le zone interne, se non verranno rivalutate con l’ottica dell’efficacia e della solidarietà, invece che con quella economicista e del profitto.

La veglia e la processione

Hai come la sensazione che esista una sorta di conflitto tra vecchio e nuovo, tradizione e modernità, danzatori di tarantella e nuove forme di preghiera e di raccoglimento. Poi, fissando, camminando, parlando avverti che Polsi è molte cose insieme. Le notti della vigilia sono tante a Polsi. Sono rumorose e silenziose, buie e luminose, cariche di stanchezza e d’attesa, di preghiere e di sogni. Ho osservato la notte di chi prega in una sorta di moderno anfiteatro sorto di recente nel luogo in cui sorgeva la colonna della Madonna, adesso spostata in uno slargo vicino, dove i devoti continuano ad accendere cerri votivi. Ho visto quella dei suonatori e danzatori, che si muovono con grande abilità, con gesti e movenze sapienti. Attenzione, però, a parlare di ritorno della tradizione. Non «pestano» più la terra ad ogni angolo della valle, con il prestigio e le allusioni degli antichi maestri di ballo, questi giovani e giovanissimi, e anche bambini, che magari stanno riscoprendo la tarantella seguendo altri percorsi, forse, quelli delle discoteche, delle scuole di danze. Nel cuore della notte di Polsi, quando tutti i sogni e le fantasie sono possibili, mi sono trovato a pensare se non sarebbero «convenienti» a questi luoghi una scuola di tarantella e manifestazioni estive di balli tradizionali. In fondo Polsi è stata la «capitale» di danze e suoni che da anni conoscono l’interesse dei giovani meridionali e di diverse parti di Europa.

Ho intuito la notte delle donne, anziane e giovani, che dormono, con uomini e bambini, su lunghe e colorate coperte fuori della chiesa, delle ragazze che si sistemano alla meglio, cantando, pregando, dormendo, davanti all’altare principale o a quelli delle altre navate. Un pellegrino guida i canti tradizionali. Lo vedo a Polsi da trent’anni. Ha ricevuto tante grazie, adesso che è in dialisi ed ha settant’anni, aspetta un altro miracolo. Una donna offre alla Vergine le proprie trecce, una coppia di sposi festeggia qui le nozze d’argento, una devota arriva in ginocchio fino all’altare. Un’altra notte è quella tra le baracche dove ancora si mangia, quella delle macchine lungo i fiumi, piene di persone che dormono, quella nostra che ci aggiriamo dubbiosi, guardinghi, attenti, pieni di che ci faccio qui, desiderosi di capire e di capirci. Una notte, ancora diversa, è quella di padre Pino Stancari che da anni svolge qui la sua opera pastorale. Dopo averlo salutato, mi sono domandato se Polsi non costituisca la migliore metafora di quella «Calabria tra sottoterra e cielo», come recita un suo intenso e bellissimo libro.

Sono tante le notti, e tante le albe. Quante le speranze e i sogni, i bisogni e le paure delle persone. All’alba, quando il sole si tuffa dai monti, hai il senso di un’umanità emersa dalle acque. Tutti sembrano stanchi, hanno gli occhi spenti, ma in giro avverti tanta pacatezza e serenità. La messa all’aperto comincia dopo le nove. L’anfiteatro è pieno di gente d’ogni età e di diversa provenienza. Molti pellegrini seguono, attraverso l’amplificazione, il rito, le preghiere, le omelie. Gruppi di irriducibili, quasi ad affermare l’esigenza di una «seconda festa» continuano a ballare. Gli uomini di Bagnara, quelli della congregazione della Madonna della Montagna, con mantellina azzurra e camice bianco, che per usanza antica hanno il privilegio di portare la statua della Madonna (una copia, perché l’originale si sposta solo eccezionalmente, altrimenti si verificherebbero catastrofi) sono al loro posto, avanti e dietro alla vara. Una donna scalza, calzini celesti, veste e giacca celeste, camiciola vaniglia, addobbata con i colori della statua della Vergine, poggia, senza sollevarla un istante, la testa alla vara. Ragazze in costume portano i frutti della terra in omaggio alla Madonna. Scelgo come postazione, per vedere l’arrivo della processione, la loggia di un’antica casa dei pellegrini in restauro. A fianco c’è la stanza dei Bagnaroti. A lato il balcone e la casa dei pescatori di Ganzirri, che arrivano in barca fino a Villa S. Giovanni e poi proseguono con i pulman. I balconi su più file e le logge sono i luoghi privilegiati di osservazione di un eccezionale rito-spettacolo. I portantini si fermano prima della corsa finale con la statua verso la chiesa. La corsa finale avviene con tensione e pathos. La giravolta riesce ed è una festa di applausi, di spari, di canti e di preghiere. Lo sguardo della Madonna fissa la montagna dove, ormai tanti secoli addietro, si è nascosta la Sibilla. Memoria pallida di lontani e drammatici scontri tra culture e religioni. Gli uomini e le donne di Bagnara mi invitano nelle loro stanze. Si apprestano a mangiare maccheroni e carne di capra. Sono orgogliosi e commossi. Un giovane è venuto dalla Germania. È la prima volta. È stato un onore e un piacere, un atto di fede, portare la statua della Madonna. Tornerà tutti gli anni.

Polsi non è più la metafora di una «vecchia Calabria», è diventato il luogo dove le persone rivelano ancora intensi sentimenti, è la metafora di una nuova centralità, e di un nuovo bisogno di sacro e di appaesamento. Salendo lungo la montagna, con un fuoristrada, tra la polvere, sudato, stanco, pieno e svuotato, cambiato, penso che non tornerò più a Polsi. Le grandi teorie di macchine che hanno fiancheggiato la montagna sono un ricordo. Guardo indietro e vedo le guglie del campanile, le nuove baracche e le fiumare. Da un camion di pellegrini arriva il grido antico e nuovo di «Viva Maria». Sento che, un giorno, avrò, ancora, nostalgia di tornare a Polsi.

Questo articolo è del 2004. Sono tornato a Polsi nel 2007. Le foto che riporto si riferiscono a quell’anno. Su Polsi ho realizzato un documentario per Rai 3 nel lontano 1978 e ho scritto numerosi articoli pubblicati sul “Quotidiano della Calabria” e altri giornali italiani e calabresi. Di Polsi ho scritto in “Terra Inquieta”, Rubbettino, 2015.

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