Giancarlo Siani a quarant’anni dal suo assassinio
Libertà di stampa e di espressione in crisi profonda

Giancarlo Siani era un giovane giornalista di appena ventisei anni, precario, innamorato del suo lavoro. Aveva compreso sin dall’inizio l’importanza di una informazione libera, non soggetta a nessuna pressione politica, massonica o mafiosa. Possedeva una Citroën Méhari verde con la cappotta di tela nera, d’estate amava scappottarla, d’inverno era costretto a sopportare i non pochi spifferi. Una macchina simpatica ma lenta e dal rumore tipico e inconfondibile. I sicari lo hanno riconosciuto subito la sera di quel 23 settembre 1985, lo attendevano sotto casa, in via Vincenzo Romaniello, nel quartiere napoletano dell’Arenella. Alle 20.50 Giancarlo la posteggia a pochi passi dalla sua abitazione, ma non ha avuto il tempo di scendere dall’auto e viene investito da una pioggia di proiettili esplosi da due Beretta cal. 7,65 che lo raggiungono alla testa e in diverse parti del corpo. I due sicari scappano su una moto di grossa cilindrata, mentre Giancarlo muore sul colpo. In tasca, aveva oltre i documenti due biglietti per il concerto di Vasco Rossi organizzato per quella serata. Giancarlo viene ucciso perché in un suo articolo di qualche mese prima, apparso su Il Mattino, aveva letto con particolare attenzione la strage di Sant’Alessandro del 26 agosto 1984, che era costato la vita a parecchi uomini del clan Gionta, su ordine del boss Antonio Bardellino. Nei piani segreti della Camorra Giancarlo era stato condannato a morte perché ritenuto un pericolo per la sua puntuale attività di denuncia giornalistica. Da diverso tempo stava attenzionando gli interessi della Camorra sugli appalti pubblici e le varie collusioni per la ricostruzione delle aree colpite dal terremoto dell’Irpinia del 1980 nell’area vesuviana. Dopo dodici anni, il 15 aprile del 1997, la Corte d’Assise di Napoli ha condannato all’ergastolo come mandanti dell’omicidio i fratelli Lorenzo e Angelo Nuvoletta, Luigi Baccante e lo stesso Valentino Gionta. Come esecutori materiali vengono individuati Ciro Cappuccio e Armando Del Core. Un altro processo a carico del boss Gionta non ha dato alcun esito. Anche la riapertura di un’inchiesta della Direzione Antimafia della Procura di Napoli nel 2014, basata sulle rivelazioni di un libro del giornalista Roberto Paolo, viene archiviata. Anche in questo caso la giustizia non è riuscita ad affermare tutta la verità sul perché del suo barbaro assassinio. Dinanzi a questi martiri fa ancora più male il fatto che nel nostro bel Paese la libertà di stampa è sempre più minacciata sul servizio pubblico innanzitutto. Che dire, poi, della legge bavaglio, delle querele temerarie e intimidazioni e violenze verso i giornalisti sempre più frequenti. Vittorio di Trapani, presidente della Federazione nazionale stampa italiana (Fnsi) ha dichiarato in una intervista: “Viviamo in un Paese in cui la presidente del Consiglio preferisce solidarizzare con un premier straniero che chiama i dirigenti Rai per lamentarsi di un’inchiesta”. Sono molti i Paesi europei in cui si registrano restrizioni alla libertà di espressione e forme di censura: Bulgaria, Croazia, Estonia, Grecia, Ungheria, Irlanda e ovviamente Italia. In Croazia si sono verificati diversi casi di ostruzione al lavoro dei giornalisti, a cui è stato negato l’accredito per eventi di interesse pubblico. Se è vero come è vero che la libertà di stampa e di espressione è uno dei capisaldi del vivere democratico, dobbiamo riconoscere che questo tentativo di bavaglio mediatico, è diametralmente proporzionato al decadimento democratico che stiamo sperimentando da diversi anni anche nel nostro Occidente. Non possiamo permettere che le morti di Giancarlo Siani, di Pippo Fava e di tanti altri colleghi siano inutili.