Le mire della ‘ndrangheta sul Porto di Tropea e la richiesta di 10 mila euro «per non avere problemi»
«L’imbasciata al “dottore”» da parte dei La Rosa tramite un intermediario. Nella sentenza del gup le condanne per estorsioni nella Perla del Tirreno

VIBO VALENTIA I tentacoli della ‘ndrangheta anche sul Porto di Tropea, la Perla del Tirreno che negli anni ha vissuto un boom turistico senza precedenti. Un contesto che ben si presta alle mire della criminalità organizzata calabrese: più soldi, più economia e nuove occasioni per cercare di infiltrarsi nel ricco mercato del turismo. Dettagli che erano già emersi e certificati dalla sentenza di Costa Pulita, l’operazione contro le attività dei clan lungo la Costa degli Dei, e che il processo che riunisce Maestrale, Olimpo e Imperium ha cristallizzato nuovamente con la sentenza emessa nel rito abbreviato lo scorso marzo. Tra i condannati Francesco e Antonio La Rosa, ritenuti al vertice dell’omonima cosca tropeana al servizio dei Mancuso, ma anche Fernando Lamonica, ristoratore tropeano condannato a 12 anni e 4 mesi per concorso esterno ed estorsione.
Le mire sul Porto
Sarebbe stato lui «l’intermediario» tra il clan La Rosa e Aristide Di Salvo, amministratore della Porto di Tropea Spa, come scrive il gup Pietro Agosteo accogliendo la tesi accusatoria della Dda di Catanzaro. Di Salvo, amministratore delegato della società che gestiva l’intera area portuale, nel 2019 aveva presentato querela per una presunta estorsione, denunciando che Lamonica si sarebbe avvicinato da lui suggerendo di «creare un canale di comunicazione con la criminalità organizzata per evitare il rischio di subire ritorsioni, anche nella forma di possibili attentati». Ribadendo «a più riprese» di «non scherzare con queste persone in quanto era gente pericolosa». Successivamente, secondo la ricostruzione dell’accusa, Lamonica avrebbe fatto arrivare alla vittima una richiesta di denaro da 10 mila euro «da versare in due tranches “facendo finta che stavamo pagando uno stipendio”».
«Un’imbasciata da portare al “dottore”»
Dopo averne ricevuto metà, Lamonica – secondo il racconto della vittima – si sarebbe recato nuovamente per chiedere di saldare. «Mi mostrai fermo – ha raccontato – e gli risposi che non intendevo corrispondere altre somme e che qualora avessero insistito non avrei esitato a riferire tutto al procuratore dottor Gratteri». Per il gup il racconto «appare intrinsecamente credibile, in quanto lineare, circostanziato e privo di apprezzabili contraddizioni». Come ulteriore prova, il gup riporta la conversazione tra Domenico Polito e Antonio La Rosa, i quali avrebbero fatto riferimento «al ruolo da intermediario che avrebbe dovuto portare un’imbasciata a tale “dottore”». Per il giudice risulta «cristallizzata la condotta estorsiva» ai danni dell’imprenditore Aristide Di Salvo, «indotto a versare l’importo di euro 10 mila euro al La Rosa e al Polito per il tramite del Lamonica».
L’ormeggio del gommone riconducibile al clan
La sentenza si concentra poi su un altro episodio relativo all’ormeggio di un gommone per l’accusa riconducibile sempre al clan La Rosa. Ancora una volta sarebbe stato Lamonica a indicare le modalità operative per rendere la pratica più celere e «senza, evidentemente, attrarre l’interesse investigativo da parte delle forze dell’ordine». In particolare, si sarebbe dovuto stipulare un contratto regolare per l’ormeggio per l’importo di 3 mila euro, che «sarebbe stato inizialmente onorato dagli interessati, ai quali però la somma avrebbe dovuto essere restituita in contanti». Per il gup reggono le accuse di estorsione e tentata estorsione aggravata, ma anche per il concorso esterno di Lamonica, dal momento che oltre a essere «prezioso intermediario» avrebbe «concretamente contribuito, pur senza formalmente farne parte, al rafforzamento e alla realizzazione degli scopi della ‘ndrina La Rosa di Tropea». Da queste vicende estorsive – scrive il gup – emerge «l’influenza criminale della famiglia La Rosa sull’area portuale di Tropea». (ma.ru.)
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