Le impossibili e non credibili acrobazie del Ministro Matteo Salvini
L’in-credibile passaggio del “Ponte” dal razzismo antimeridionale e anticalabrese alla sdolcinata retorica della “mia Calabria”

«Negri sì Terroni no»; «Il terrone accettalo [… ] con l’accetta»; «I meridionali in toga I nostri figli in tuta»; «Aspromonte ano d’Italia»; «Napalm sull’Aspromonte»; «Stato ladrone Stato terrone»; «Terrone usa il sapone»; «O la Mafia o La Lega»; «I Bresà en Fonderia – I Terù a L’Inps»; «Terroni go home»; «La mafia non è povertà ma una mentalità»; «State in Africa»; «Benvenuti in Italia» (negli stadi nelle partite con il Napoli, l’Avellino, ecc.); «Giustizia terrona Giustizia cialtrona»; «Giudici lombardi in Lombardia» (su un manifesto della lega Nord); «Lisciotto Terrone torna in Meridione». Dall’inizio degli Anni Novante del Novecento, le posizioni antimeridionali e razziste della Lega vengono allo scoperto, illustrate dai suoi maggiori esponenti politici, tradotti in slogan duri, fastidiosi, efficaci. Diverse scritte, rilevate e fotografate in quel periodo di trionfo elettorale, che evidentemente rendeva sicuri e arroganti anche quanti prima mormoravano a bassa voce, sono emblematiche per comprendere gli umori alimentati dai dirigenti leghisti.
Il clima di odio, di rancore, di astio nei confronti dei meridionali, dei calabresi in particolare, è descritto nel 1990 da Filippo Veltri e da Diego Minuti, i quali nel volume “Lettere a S. Luca” riportano lettere che i cittadini del Nord spediscono al sindaco, al parroco, ai carabinieri di S. Luca, il paese dell’Aspromonte, il paese di Alvaro, conosciuto come il paese dei sequestri. Il fatto inquietante è che le lettere sono spedite dopo che a Luino, il 16 gennaio 1990, i carabinieri uccidono tre persone di S. Luca e una di Natile di Careri, che si apprestavano a portare a termine un sequestro di persona.
Ricostruiva l’indimenticabile Pasquino Crupi nella Presentazione del suo libro “Il giallo colore del sangue di Luino” (1990): «L’indomani il Procuratore della Repubblica di Varese, che deve svolgere le indagini e seppellirsi nel segreto istruttorio, gli alti comandi militari, che devono dire al Paese se ci fu conflitto a fuoco, la grande stampa, che dovrebbe obbligarsi ad una onesta informazione, esultano: un sequestro di persona è stato sventato, la guerra ai sequestratori è dichiarata. Ci fu sequestro in persona [della figlia] di un imprenditore di Luino? I quattro “sequestratori” spararono? O furono sparati dai carabinieri appostati perché la pena di morte, non scritta, è al nome sequestratore? Il libro ricostruisce la vicenda attraverso una puntuale consultazione critica del materiale giornalistico prodotto nei tre giorni di Germignaga, Non ha che questa tesi, cioè questo principio di civiltà giuridica moderna: che né per i sequestratori né per i presunti sequestratori c’è la pena di morte. Non è mosso che da questa grande coscienza critica: che attorno alle tombe dei quattro calabresi, dopo che ha taciuto la pietà, non dovrà tacere la verità». Non amo verità precostituite, nemmeno eventuali negazionismi o revisionismi, certo la verità di quel terribile episodio, da quanto a me risulta, non è mai venuta alla luce. Resta in me un forte senso di pietà e di dolore per la povera vittima sequestrata, ma anche per i quattro calabresi uccisi (detesto la pena di morte) in una modalità mai chiarita. Intanto a San Luca, come ricordano sempre Veltri e Minuti, continueranno ad arrivare lettere di questo genere: «Vorrei che la vostra maledetta terra scomparisse dal mondo»; «Ai sub-umani degenerati abitanti di S. Luca, simbolo di barbarie e di vergogna»; «Brutti, sporchi puzzolenti; non solo nel corpo, ma anche nell’anima».
Maledizione, bruttezza, degenerazione, barbarie, sporcizia: il vocabolario dell’antropologia positivista serve ormai a dare voce a un nuovo risentimento e solidità a una forza politica, che intercetta il malessere di ceti popolari insicuri. Vengono augurati ed auspicati terremoti, pena di morte, cancellazione del Sud dalla carta geografica. C’è chi invita a smetterla di spillare soldi ai padani e non mancano le lettere di immigrati calabresi, che dichiarano il loro disagio. «Ma che vergogna, siamo Calabresi tutti, e siamo segnati a dito, dovunque andiamo ci chiamano “maledetti”! Un tempo la Calabria era una ragione forse non ricca, ma fatta di persone semplici e umane; oggi ho vergogna di essere Calabrese, ho vergogna di sentire al telegiornale che laggiù si vive di estorsione di innocenti persone, in cambio di soldi, non vostri e rubati a gente che lavora anni e con sacrificio, per avere questo danaro». I leghisti ci hanno colonizzato anche l’inconscio e i loro stereotipi diventano, in molti casi, autostereotipi. Il «bolide della razza», come rimproveravano i meridionalisti agli antropologi positivisti della “teoria” razziale e razzista dei meridionali “inferiori” e “degererati” per la loro forma di cervello, atavica e primitiva, esplodeva e provocava contagi anche tra le “vittime”, che introiettavano le posizioni colonialiste dei Settentrionali.
A inizio anni Novanta, Gianfranco Miglio, lontano dalle cautele e dalle preoccupazioni elettorali dei dirigenti leghisti (a votare Lega, com’è noto, sono stati anche numerosi meridionali emigrati al Nord) dichiara, in maniera dura e chiara, di non «amare i meridionali». L’ideologo della Lega, al quale oggi molti sindaci del Carroccio intitolano strade o edifici, come si fa con i padri della patria, con un chiaro gioco delle parti con i Bossi e i Moroni, affermava di basare il suo rifiuto su considerazioni di tipo antropologico. Miglio, come dichiarava a molti giornalisti, che diffondono il suo credo senza alcun commento critico, è impegnato, in quegli anni, assiduamente in un’opera di preparazione e scrittura della Costituzione delle popolazioni dell’Italia meridionale, adatta al loro temperamento e alle loro “inferiori” caratteristiche culturali. L’ideologo leghista sostiene che nel Sud esiste ancora una cultura che rimpiange la «civiltà classica» e non sa vivere nella società moderna.
Se in passato, da fine Ottocento al periodo fascista (come ricorda Antonio Gramsci in una famosa e acuta nota dal carcere) e poi fino agli anni del boom economico e della modernizzazione violenta e fasulla, i meridionali erano considerati una «razza inferiore» e «maledetta» perché non volevano integrarsi nella società civile, in una nazione moderna, in uno Stato unitario, alla fine degli anni Ottanta del Novecento, sono individui appartenenti a una «razza» plasmata dalla politica dei partiti e dallo Stato. Il neorazzismo antimeridionale (il neorazzialismo globale) alimentava una certa tendenza delle popolazioni e delle élite a negare l’evidenza. La comprensibile esigenza di respingere un’indiscriminata criminalizzazione e la trasformazione dei meridionali in bestie, barbari, esseri feroci spesso sortiva come risposta il ritornello che i calabresi sono tutti onesti e bravi lavoratori. È una profonda frattura culturale che si determina in quel periodo e di cui non ci si rende conto fino in fondo.
«Antistatalisti» o «statalisti», «ribelli» o «apatici», «antipiemontesi» o «italiani», risorgimentali o neoborbonici, i meridionali sono indicati sempre responsabili degli insuccessi della politica dei ceti dirigenti nazionali. Sono lo specchio comodo dei fallimenti delle élites nazionali e locali: il negativo su cui proiettare le proprie ombre. Diventano capri espiatori; sono l’altro da demonizzare, l’altro da cui prendere le distanze, separarsi, allontanarsi, nella pratica e con la modifica dei fondamenti dello Stato italiano. E quanto oggi potrebbe accadere, con la proposta di legge sull’autonomia differenziata (voluta da Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna) è anche il frutto di quell’ideologia e di quella politica antiunitaria e antimeridionale portata avanti da Umberto Bossi, da Miglio, dal giovane Salvini a inizio anni Novanta. Siamo ormai a un passo della realizzazione dello storico disegno secessionista della Lega, come scrivono (Viesti, Pallante, Cersosimo, Nisticò a tanti altri).
Il 17 gennaio 2020, il n. 2 della Lega, Giancarlo Giorgetti, che, per fortuna, è lontano dal linguaggio e dalle invettive di Salvini, intervistato da Lilli Gruber, in contraddittorio con Marco Travaglio direttore de Il Fatto Quotidiano, nella trasmissione Otto e mezzo ha dichiarato che i risultati della Calabria non interessano a nessuno. Conta solo il risultato dell’Emilia, in poche parole, pare lecito pensare che il “profondo Sud” rimane l’ultimo dei pensieri di Matteo Salvini e leghisti. Ed è stato coerente, per Giorgetti, Salvini, Calderoli, quando hanno portato avanti la scellerata proposta di legge dell’autonomia differenziata nulla hanno contato i calabresi e i meridionali.
E nulla contano i meridionali penalizzati dal PNNR e i calabresi e i siciliani, indicati come quelli che dovranno sostenere le spese del Ponte dello Stretto, mentre i paesi e le città svuotano, non hanno strade, collegamenti, scuole, ospedali, centri sociali, centri di cultura e sociali, non hanno il diritto alla salute, all’istruzione, alla mobilità (se non per essere cacciati definitivamente dalla loro terra) e più della metà degli abitanti vivono in condizioni di povertà estrema, vengono ignorati nella loro dignità e nel loro orgoglio di popolazioni laboriose, che hanno fatto anche la ricchezza del Nord, dell’Italia, dall’Europa e delle Americhe. Il recente Raduno di Pontida, con Salvini e Vannacci, dove c’era una cospicua presenza di calabresi e meridionali, è stato il trionfo dei discorsi contro i diversi, gli stranieri, gli altri. I calabresi, alcuni dei quali sono complici e artefici della loro distruzione come “popoli” liberi, non vengono nominati, ma sono lì, nella storia e nelle oscurità della Lega, il capro espiatorio, il male assoluto, i maledetti dell’Italia, insieme sovranista e separatista (grande miracolo della politica di destra).
Adesso sappiamo, che il 30 settembre 2025, nel suo Tour elettorale in Calabria, Salvini, vicepremier del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana e ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti nel governo Meloni e leader del Carroccio, ha parlato, con la retorica di un’identità a buon mercato e non credibile, di «Calabria mia», a cui regalerà il Ponte sullo Stretto, che per vedrà i cantieri aperti entro il 2025 e che finalmente porterà in Europa il “selvaggio” Sud. Ed è di ieri un altro spericolato passaggio di un altro “Ponte” da parte di Salvini, nella sua veste di ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti: il “passaggio” da una Lega che, almeno con Bossi proclamava il suo antifascismo, a una Lega che apre a posizioni sovraniste, autoritarie, anticostituzionali, contro il diritto di sciopero a favore di chi contrasta e manifesta per il genocidio dei palestinesi. Inquieta non poco Salvini che dichiara: «Lo sciopero di oggi è illegittimo non perché non lo vuole Salvini, ma perché la Commissione tecnica di garanzia lo ha dichiarato illegittimo. Chi oggi sciopera sa che va contro la legge e rischia sanzioni sia a livello personale che come organizzazioni sindacali». Tentativi di inutili e improponibili passaggi di “ponti”, quello dello Stretto e quello dalla democrazia al sovranismo-autonomismo autoritario.
Vorrei ricordare a Salvini e ai salviniani, che nelle nostre (Calabria e Sicilia) in cui esisteva un legame profondo, inscindibile, tra vivi e defunti, esisteva il “Ponte di San Giacomo” (è anche il titolo di un bellissimo libro di L. M. Lombardi Satriani e Mariano Meligrana del 1983), quel ponte sottile come un capello che le persone, appena defunte, dovevano attraversare per raggiugere l’aldilà, dove trovavano quiete e dove avevano sempre “nostalgia della vita”, alla quale “tornavano” in eccezionali occasioni rituali e festive per “dialogare”, mangiare, bere (una grande “nostalgia dell’acqua”) con i loro cari familiari. Chi mi conosce e ha letto qualche mio scritto, sa, come creda alla sacralità della vita e sia sempre (come Canetti) “contro la morte” e come, però, creda che sia fondamentale il dialogo vivi-defunti e che dobbiamo ascoltare il dolore e il clamore dei defunti (“Il libro rosso” di Gustavo Jung), chi mi conosce sa quanto desideri la pace, sia per la guerra e non abbia “nemici” e non conosco odio e rancore e, pertanto, auguro a Salvini, a livello personale, una lunga vita e ogni bene.
E però, vorrei dire a lui e a chi lo sostiene, che esistono anche le “anime morte” (cito liberamente il romanzo comico-grottesco e di denuncia della società russa di Gogol, dove le anime morte erano i servi della gleba), esistono anche quelle “persone” che si illudono di essere vive ed eterne, e invece sono già “morte”, pure vivendo. In questo mondo complesso, difficile, pieno di dolore, di eccidi, di guerre, di genocidi, ma anche di gente, di giovani, di ragazzi, organizzazioni di pace, come la “Flotilla Sumud” e milioni e milioni di persone che si sentono su quelle barche che annullano i “ponti” che separano e inventano vie e cammini, di mare e di terra, di apertura e fratellanza. Dobbiamo essere grati e orgogliosi di questa Italia (e di altre “patrie” aperte), dove, finalmente, le persone, nelle piazze, nelle città, nei paesi, dovunque) si svegliano resistono e si oppongono, come possono e come sanno, alla “cultura della morte”. Avremmo bisogno di politici, ministri, premier, responsabili, sapienti, capaci di ascoltare queste grida di dolore e di pace, capaci di essere “contro la morte” e di alimentare vita e speranza in un pianeta, che, invece rischia di andare alla deriva. Nessuno di noi domani potrà dire: “Noi non sapevamo” o, peggio, “noi eravamo contrari al genocidio”.
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