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la riflessione

Sigfrido Ranucci e Mario Sechi: giornalismo a confronto tra servizio del potere e libertà di informazione

«A poco più di 40 anni dall’omicidio di Pippo Fava ancora una volta il giornalismo serio viene seriamente minacciato»

Pubblicato il: 17/10/2025 – 15:01
di Ennio Stamile
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Sigfrido Ranucci e Mario Sechi: giornalismo a confronto tra servizio del potere e libertà di informazione

Ci sono Giornalisti e giornalisti. Sono in molti credo a ricordare la magistrale lezione che Giuseppe (Pippo) Fava ha offerto sul giornalismo, prima con quelle parole che spesso mi piace ricordare: «Ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo». Poi con la vita: Pippo Fava venne trucidato dalla mafia siciliana il 5 gennaio 1984.

Le minacce a Sigfrido Ranucci

Purtroppo, a distanza di poco più di quarant’anni da quel barbaro omicidio ancora una volta il giornalismo vero che ha come unico scopo l’informazione pubblica scevra da qualsiasi ingerenza politica e non, ancora una volta nel nostro bel Paese viene seriamente minacciata come è successo a Sigfrido Ranucci questa notte. Questa volta non con accuse infamanti della parte politica dell’attuale governo ma, addirittura, facendo ricorso ad un ordigno esplosivo che ha fatto saltare la sua autovettura e quella della figlia parcheggiate entrambe sotto la propria abitazione. Un fatto di una gravità assoluta, perché oltre a minacciare la vita di Ranucci e dei suoi familiari, mina le fondamenta della nostra democrazia, che ha come uno dei principi fondatori proprio la libertà di stampa. Un fatto, questo, che mi ha provocato una riflessione sullo stato del giornalismo del quale anche io, nel mio piccolo, mi sforzo di fare parte. Da una parte abbiamo 23 giornalisti italiani uccisi in Italia e all’estero e  250 giornalisti uccisi a Gaza che ci hanno rimesso la vita unicamente per tentare di raccontare la verità; questi ultimi, di un genocidio di quei 67.000 morti tra questi 20.000 bambini.

Da Mario Sechi ad Alessandro Antinelli

Dall’altra, giornalisti come Mario Sechi che dice di «non aver visto bambini malnutriti a Gaza» oppure augurarsi che «le barche della Flotilla vengano affondate, così la prossima missione dovranno rifinanziarla».  Oppure quelle ancora più gravi per il ruolo di direttore ufficio stampa Rai, che ricopre Incoronata Boccia, la quale sostiene che «non esiste una sola prova che l’esercito israeliano abbia mitragliato civili inermi» e addirittura «si vergogna per il suicidio del giornalismo che si è piegato alla propaganda dei set di Hamas».  Per contro la coraggiosa dichiarazione di Alessandro Antinelli durante la partita di Italia-Israele che ha indossato un fiocco nero sulla giacca spiegando che esso «ricorda i 250 giornalisti e giornaliste uccisi a Gaza, in quello che la commissione di inchiesta dell’Onu ha definito un genocidio che questi giornalisti hanno provato a raccontare, ma da cui non sono mai tornati», che hanno suscitato le ire funeste dell’ex ministro leghista Carlo Giovanardi.  

Pseudo giornalisti

Boccia e Sechi, con le loro affermazioni dimostrano in modo evidente di non essere al servizio della pubblica informazione, ma più semplicemente servi del potere governativo fermamente persuaso, come sappiamo, che il diritto internazionale può essere invocato solo quando si è all’opposizione – cfr. le dichiarazioni della Meloni sul caso dei Marò arrestati in acque internazionali dall’India – altrimenti vale solo «fino ad un certo punto» come ha affermato il Ministro Tajani dinanzi ad un altro servo della gleba Bruno Vespa. Ciò vale non solo per il diritto internazionale ma anche per la Corte Penale Internazionale che ha emesso mandati di arresto totalmente disattesi nei confronti dei criminali Almasri e Netanyahu, così come le risoluzioni ONU nei confronti di Israele. Etienne de la Boétie, nel suo «Discorso sulla servitù volontaria», appena ripubblicato da Chiarelettere, con un saggio iniziale di Paolo Flores d’Arcais, si chiedeva: «com’è possibile che tanti uomini sopportino un tiranno che non ha forza se non quella che essi gli danno»? Bella domanda. Osservando il comportamento e le dichiarazioni molti “servi eunuchi” pseudo giornalisti ai quali vanno aggiunti alcuni uomini e donne dello spettacolo televisivo, essa mantiene tutta la sua contemporaneità nonostante si stata formulata dall’umanista francese nel lontano 1554. Insomma, ogni forma di potere, nel suo ambito, suscita, volente o nolente, servilismo, De Boétie, individuava alcune cause: «l’abitudine che ci insegna a ingurgitare, senza trovarlo amaro, il veleno della servitù, l’ignoranza, le elargizioni»;  e aggiunge: «sono sempre quattro o cinque che mantengono il tiranno»; «quei sei hanno poi sotto di loro seicento approfittatori» e «quei seicento ne hanno sotto di loro seimila cui fanno fare carriera» e «dopo costoro ne viene una lunga schiera, e chi vorrà divertirsi a sbrogliare questa rete vedrà che non sono seimila, ma centomila, ma milioni che grazie a questa corda sono attaccati al tiranno, e si mantengono ad essa».  Se, come si suol ripetere, “ogni mondo è paese” anche ogni forma di autoritarismo ha i suoi servi o forse sarebbe meglio definirli … utili idioti. (redazione@corrierecal.it)

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