Donata Bergamini: «Ora posso guardare i miei figli negli occhi. Le parole di Internò non mi interessano»
Il racconto della sorella dell’ex calciatore del Cosenza calcio a 36 anni dalla tragedia di Roseto Capo Spulico. «Vorrei che l’ultima parte della mia vita fosse finalmente serena, libera, limpida»

COSENZA Il 18 novembre 1989 Denis Bergamini moriva sulla statale 106, a Roseto Capo Spulico. Una vicenda che ha resistito al tempo, alle archiviazioni e ai silenzi, grazie soprattutto alla determinazione incrollabile della sua famiglia e, in particolare, della sorella Donata Bergamini, che da tre decenni è il volto più fermo e più visibile della richiesta di verità.
«Quando in un dolore così grande non viene scritta subito la verità – dice oggi al Corriere della Calabria – è come se ti chiudessero in una cella. Per anni non ho respirato».
Oggi, mentre amici, compagni di squadra di Bergamini, tifosi e semplici cittadini ricordano quel ragazzo di 27 anni che vestiva con orgoglio la maglia del Cosenza, nelle aule di giustizia la battaglia continua. Lo scorso 24 ottobre, a Catanzaro, si è aperto il processo d’appello contro Isabella Internò, ex fidanzata del calciatore, condannata in primo grado a 16 anni per concorso in omicidio. Un’udienza lunga, tecnica, densa di eccezioni e attacchi incrociati tra accusa e difesa.
Donata, sono passati 36 anni da quella tragica sera. Cosa rappresenta per lei questo nuovo 18 novembre, dopo la sentenza di primo grado arrivata lo scorso anno?
«Oggi posso dire che finalmente qualcuno ha aperto la porta di quella gabbia in cui mi hanno rinchiuso per decenni. Per anni, con la mia famiglia, abbiamo lottato da lontano: lontani dai luoghi, lontani dalle aule, lontani perfino dalla possibilità di essere ascoltati. Finché papà ha potuto, si è battuto come un leone. La verità era chiara fin dall’inizio: Denis non si è suicidato, Denis è stato ucciso. Il processo in Corte d’Assise ha confermato tutto: sono state portate prove solide dell’omicidio e altrettanto solide delle menzogne di Internò. Questo 18 novembre è diverso. Il dolore resta, quello non passa mai, ma almeno posso dire ai miei figli, guardandoli negli occhi, che non parlavamo per ossessione o per rabbia: lo zio è stato ucciso, e oggi la giustizia lo riconosce. È stato un calvario che ha attraversato più generazioni: i miei figli, i miei nipoti. I più piccoli crescono ora, e sarebbe bello poter dire loro che finalmente giustizia è stata fatta. Lo spero con tutto il cuore».
La prima udienza d’appello del 24 ottobre è stata soprattutto tecnica, ma ha lasciato il segno: le eccezioni della difesa sono state respinte. Che giornata è stata per lei?
«Non sapevo cosa aspettarmi. Entrare in un’aula d’appello è diverso, ti senti di nuovo esposta, fragile. Ma a Catanzaro ho trovato un calore che mi ha sorpresa: tanti cosentini, gli amici di sempre, i tifosi, perfino gli immancabili compagni di squadra di Denis, come Gigi Simoni e Alberto Urban. Non mi sono sentita sola. La verità è che questa storia ha smosso la coscienza di tanti ragazzi calabresi, fin dal 2009. Per la prima volta la gente è scesa in piazza contro una “verità” che non stava in piedi. Io oggi ho fiducia nella giustizia, anche se per troppo tempo mi ha tradita. Ma i giudici sono uomini, e gli uomini possono sbagliare. L’importante è che ora si continui a guardare i fatti, non le ombre».
In questi giorni è uscito un podcast realizzato da Selvaggia Lucarelli in cui Isabella Internò parla dopo 36 anni. Lo ha ascoltato?
«No, e sinceramente non mi interessa. Di menzogne di Isabella Internò ne ho ascoltate abbastanza per un’intera vita. A me interessa solo ciò che accade nell’aula di tribunale, dove operano persone competenti e dove vale ciò che si dimostra. La sentenza di primo grado parla chiaro: sedici anni di condanna. Io non ho mai speculato, non l’ho mai fatto e non inizierò certo ora. Lascio che parlino i fatti e chi indossa la toga».
L’avvocato Fabio Anselmo ha detto ieri: “Dobbiamo difendere Donata da chi specula, chi chiacchiera, chi usa un dolore così grande per costruire uno spettacolo indecente”. Come ha accolto queste parole?
«Le condivido in pieno. Io aspetto fiduciosa il lavoro dei giudici, e attendo la seconda udienza con la speranza che i tempi non si dilunghino ancora. Ho già trascorso troppo tempo in questa prigione invisibile. Vorrei che l’ultima parte della mia vita fosse finalmente serena, libera, limpida. Lo devo a Denis, ai miei figli, a me stessa». (f.veltri@corrierecal.it)
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