La firma dei Gallace sulla morte di Vivaldo: i sospetti del clan dopo un arresto. Il pentito: «Per loro era un confidente»
Il racconto di De Castro: «Dicevano che doveva essere ucciso». L’appunto di un maresciallo: «Nicola ha fatto arrestare troppe persone»

LAMEZIA TERME Cosa c’è dietro l’omicidio di Nicola Vivaldo? Una domanda attorno alla quale gli inquirenti della Procura di Milano hanno girato attorno per anni, ipotizzando la responsabilità della ‘ndrangheta calabrese, cercando al contempo di risolvere un quesito per certi versi ancora più importante: il movente. Così come per la ricostruzione dell’omicidio, per il quale sono scattati cinque arresti su richiesta del procuratore Tommaso Perna, anche per i motivi dell’agguato ci ha pensato il collaboratore – e implicato nel delitto – Emanuele De Castro, palermitano con il ruolo di “primo piano” nel florido mercato dello spaccio di droga in Lombardia e con collegamenti con la ‘ndrangheta calabrese. In buona sostanza il movente dell’azione delittuosa sarebbe da ricondurre al ruolo di “confidente” della vittima mentre il “disco verde” sarebbe arrivato da Guardavalle e dalla cosca Gallace. E nei verbali tira in ballo nomi di elevato spessore criminale degli scorsi anni nell’hinterland milanese.
«(…) mi fu stato detto che questo qua era… dicevano che era un confidente. E tra l’altro l’omicidio partiva da Guardavalle, dai Gallace…» diceva il pentito in un verbale dell’agosto del 2019. «Me lo disse Enzo Rispoli, mi sembra Stefano c’era, Stefano che non mi ricordo il nome, che per questo doveva essere ucciso (…) e che aveva l’ambasciata dai Gallace, perché interessava ai Gallace quest’omicidio…». E ancora: «Comunque ne abbiamo parlato anche con Carmelo Novella di questa cosa qua e ci confermò ‘sta cosa che era un confidente, dicevano che era un confidente e che doveva essere ucciso».
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L’arresto di Aloi nel ’97
Acquisite le dichiarazioni del pentito, gli inquirenti milanesi hanno cercato i riscontri, scavando nel passato, arrivando fino al 1997. È il 29 maggio quando i Carabinieri arrestano Francesco Aloi, destinatario di un ordine di carcerazione emesso dalla Procura di Reggio Calabria. L’arresto veniva eseguito all’interno del bar-paninoteca “Snoppy” di Rho, riconducibile al defunto Vivaldo. Aloi era coniugato all’epoca con la figlia di Vincenzo Gallace, boss dell’omonima cosca di ‘ndrangheta. Ma c’è un dettaglio: dagli atti acquisiti dalla Procura relativi proprio all’arresto di Aloi è emerso chiaramente che l’arresto di Aloi derivava da una notizia appresa da una fonte confidenziale. E così, la sua cattura proprio nel bar di Vivaldo, potrebbe aver indotto i Gallace a ritenere che fosse stato favorito proprio dalla vittima.
Agli atti, poi, ci sono anche le dichiarazioni della moglie della vittima, risalenti all’aprile del 2000, secondo cui Vivaldo avrebbe favorito la latitanza di tale “Francesco” di Guardavalle, con il quale avrebbe avuto sostanziali interessi economici riconducibili al traffico di stupefacenti. Una circostanza che, secondo la Procura, confermerebbe che Vivaldo disponesse di informazioni “riservate” sulla latitanza di Aloi e che era, quindi, nelle condizioni di tradirlo, almeno nella mente dei Gallace.
«Nicola si stava comportando male…»
Tra le vecchie carte, inoltre, gli inquirenti della Procura di Milano hanno trovato un appunto investigativo datato 30 giugno 2000 in possesso di un maresciallo dei Carabinieri dell’epoca. Poche righe ma significative. Una fonte confidenziale di quel militare, infatti, aveva riferito di una notizia raccolta alcuni giorni prima da un amico di Nicola Vivaldo e Stefano Sanfilippo. Nello specifico, la fonte avrebbe appreso che l’omicidio di Vivaldo sarebbe avvenuto perché «Nicola si stava comportando male… ha fatto arrestare troppe persone». La fonte avrebbe riferito, inoltre, che durante il matrimonio del figlio di Stefano Sanfilippo quest’ultimo «non guardò né rivolse lo sguardo a Nicola. Anzi, i due si scambiarono sguardi di provocazione». Per il gip, dunque, le dichiarazioni del pentito De Castro si «armonizzano con la possibilità che nell’ambiente criminale contiguo alla vittima, possa essersi radicata la convinzione che fornisse informazioni agli operatori di giustizia». E, in certi ambienti, i sospetti valgono già una prova definitiva, spingendo la spietata e potente cosca dei “Gallace-Novella” a condannare a morta Nicola Vivaldo. (g.curcio@corrierecal.it)
(Foto: LaPrealpina.it)
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