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il quadro confermato

“Isola Scaligera” chiude il cerchio: ecco come la ‘ndrangheta ha conquistato Verona

La Cassazione ha messo il sigillo definitivo sulla “locale” guidata da “Totareddu” Giardino. Confermato il mosaico costruito dagli investigatori

Pubblicato il: 30/11/2025 – 7:00
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“Isola Scaligera” chiude il cerchio: ecco come la ‘ndrangheta ha conquistato Verona

Con la sentenza del 12 novembre 2025 scorso, la Cassazione ha chiuso il cerchio sull’inchiesta “Isola Scaligera” certificando l’esistenza di una struttura mafiosa radicata a Verona. Ora il quadro ricostruito nei tre gradi di giudizio è completo: un’organizzazione stabile, capace di connettersi alle cosche di Isola Capo Rizzuto e di infiltrarsi nell’economia legale veneta. La Suprema Corte ha respinto quasi integralmente i ricorsi degli imputati, riconoscendo la validità dell’impianto accusatorio costruito dalla Dda di Venezia. Unico punto da rivedere: l’aggravante mafiosa collegata a una tentata estorsione, che la Corte d’Appello di Venezia dovrà nuovamente valutare. Per tutto il resto, la Cassazione conferma: a Verona operava una vera e propria “locale” di ‘ndrangheta, strutturata e collegata alla potente famiglia Arena–Nicoscia di Isola Capo Rizzuto.
Al centro del sodalizio c’è Antonio Giardino, per tutti “Totareddu”, figura che già i giudici d’appello avevano definito il capo indiscusso, dominus delle attività illecite lungo l’Adige. La sentenza certifica che non si trattava di un gruppo di criminalità comune, ma di un’articolazione pienamente inserita nella rete calabrese.

Il ritratto criminale di Totareddu: intercettazioni, armi e un passato che riaffiora

Il profilo di Giardino, così come ricostruito nelle motivazioni della Corte d’Appello nella sentenza del 5 luglio 2025, è quello di un uomo profondamente integrato nelle dinamiche mafiose. Cinquantasei anni, nato nel 1969, da decenni rappresenta per gli inquirenti un punto di contatto tra Verona e Isola Capo Rizzuto.
In appello era stato condannato a 29 anni e 4 mesi (solo otto mesi in meno del primo grado) dopo un processo scandito da intercettazioni, testimonianze di collaboratori di giustizia e attività investigative che avevano delineato la sua regia su: traffico di droga in città e provincia, estorsioni, riciclaggio, emissione di fatture per operazioni inesistenti, gestione di armi, truffe e episodi corruttivi.
Dalle intercettazioni raccolte dagli investigatori anche durante una lunga degenza ospedaliera a Negrar, erano emersi dettagli inquietanti: il trasferimento di bombe dalla Calabria a Verona nei primi anni Duemila, poi fatte sparire in mare su ordine dei boss per evitare ripercussioni interne durante una fase di conflitto a Isola Capo Rizzuto. Giardino, in aula, aveva provato a ridimensionare quelle parole: «In ospedale non ero lucido, non ero in me». Ma i giudici avevano ritenuto quelle conversazioni un tassello decisivo.

L’organizzazione e la rete dei sodali

Accanto a Giardino, le condanne d’appello avevano coinvolto un gruppo numeroso e ben definito. Fra i principali imputati: Alfredo Giardino, fratello di Totareddu – 19 anni; Michele Pugliese – 17 anni e 6 mesi; Francesco Vallone – 13 anni; Pasquale Durante – 6 anni e 10 mesi (rito abbreviato). Secondo le motivazioni della sentenza d’appello, ciascuno ricopriva un ruolo nell’esecuzione delle attività della “locale”: chi nella gestione degli stupefacenti, chi nelle estorsioni, chi nell’amministrazione delle società di comodo utilizzate per ripulire denaro e mascherare operazioni fittizie. Il tutto fondato sulla forza di intimidazione tipica dell’associazione mafiosa, elemento che ora la Cassazione ritiene definitivamente provato.
Un capitolo particolarmente significativo riguarda l’infiltrazione nel tessuto economico veronese, descritta in modo chiaro già in appello e ora consacrata dalla Cassazione.
Le cosche avevano capito che «nei territori del Nord non è difficile fare soldi, ma ripulirli», come aveva spiegato il collaboratore Angelo Cortese. È qui che entra in scena la dimensione corruttiva: il gruppo Giardino aveva tentato di inserirsi nelle società partecipate del Comune, partendo da una tangente da 3.000 euro all’allora presidente dell’Amia, Andrea Miglioranzi. Un episodio che, sottolineano i giudici, «non era isolato ma parte di un progetto più ampio» volto a costruire un asse stabile tra clan e amministrazione pubblica. Le parti civili – Amia, Cgil e Regione Veneto – sono state ammesse e risarcite, a conferma del danno subito dal territorio.

Una presenza “consolidata”: cosa significa ora per Verona

Secondo la Dia, la sentenza ha segnato un punto di svolta: non si tratta più soltanto di singoli episodi criminali o di infiltrazioni sporadiche, ma della conferma definitiva di una presenza mafiosa strutturale, stabile e capace di operare sotto copertura economico-finanziaria. Verona, pur lontana geograficamente dai territori storici delle cosche, si è rivelata un ambiente fertile per investimenti, riciclaggio e relazioni con il mondo degli appalti pubblici. E mentre la Cassazione chiude il primo grande capitolo dell’inchiesta, il secondo filone – Isola Scaligera 2 – è pronto a entrare nel vivo, con il Comune già costituito parte civile. (f.v.)

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