Lamezia, 30 anni per il «boss invisibile» ma capo del traffico di droga: la condanna esemplare per lo “Zio Tonino” Cadorna
Una pena da vertice criminale che racconta una ’ndrangheta meno visibile, ma non meno potente ed efficace

LAMEZIA TERME Il suo è un profilo poco noto, rimasto di fatto sempre ai margini della narrazione pubblica della ‘ndrangheta a Lamezia Terme ma, nell’ultimo processo, è stato condannato dai giudici ad una pena pesantissima: 30 anni di carcere. Eppure, Felice Cadorna (classe 1953) noto come “Zio Tonino”, non è affatto un nome storicamente associato alle grandi famiglie egemoni del territorio e non emerge neanche quale “figura di vertice” tradizionale di un clan di ‘ndrangheta, ma vicino – anche per vincoli di parentela – alla famiglia Pagliuso indicata dai pentiti come la «più forte e dominante in Sambiase» negli anni ’80 il cui peso però si è sgretolato dopo la sanguinosa faida con la famiglia Andricciola – appoggiata all’epoca dai “Pagliaro” e dagli “Iannazzo” – culminata con l’omicidio di Pappe Pagliuso avvenuto il 22 dicembre del 1990.
La condanna a trent’anni
I giudici lo hanno punito duramente riconoscendone, di fatto, un ruolo operativo di assoluto rilievo nell’inchiesta ribattezzata “Droga Parlata”. Già perché trent’anni di carcere sono generalmente inflitti a soggetti di vertice criminale o a figure strutturalmente rilevanti, non a “comprimari” occasionali. Basta citare gli ultimi esempi dalla sentenza d’appello di Rinascita-Scott, con i 30 anni di reclusione inflitti allo storico boss di Limbadi, Luigi Mancuso. Felice Cadorna, invece, non ha lo spessore criminale e neanche il profilo tipico di uno storico boss di ‘ndrangheta. E nel processo non viene neanche riconosciuto quale «capo locale» oppure «reggente» di una cosca potente. Ma i giudici non gli hanno fatto alcuno sconto, anzi.
Figura stabile nel narcotraffico e «affidabile»
Nell’inchiesta, e poi dai giudici, lo “Zio Tonino” viene riconosciuto quale «partecipe stabile di un’associazione dedita al narcotraffico» e «soggetto inserito in una rete operativa», anche con una certa disponibilità di armi, riuscendo a sfruttare il “vuoto di potere” dopo i vari blitz che hanno colpito le più potenti famiglie di Lamezia Terme coma la cosca confederata Iannazzo-Cannizzaro-Daponte.
Il profilo di Felice Cadorna emerge anche dalle numerose intercettazioni captate dagli inquirenti. Molti degli indagati, infatti, descrivono la sua posizione, ma anche lo “spessore” di Cadorna, indagato in questa inchiesta ma già coinvolto in altre inchieste in passato, come quando Antonio Pagliuso, finito in carcere, in una conversazione captata dagli inquirenti nel magazzino di via Torre, ricorda ai presenti che al vertice del loro gruppo c’era “zio Tonino”, a seguire invece c’era lui. «(…) quando entri in una certa situazione… Antonio è “sotto” di me, Antonio, tutti quanti sono sotto di me, tuo padre lo sa dopo lo zio Tonino ci sono io!».
La minaccia al ristorante
La rilevanza della figura criminale di “zio Tonino” Cadorna era emersa anche da altri due episodi. Il primo risalente al 9 luglio 2018. Lo scenario è un noto locale di Sant’Eufemia, a Lamezia Terme, dove si festeggiava il compleanno di Antonio Pagliuso e, in quell’occasione, Cadorna avrebbe puntato una pistola, con il colpo in canna inserito, nei confronti di un uomo, minacciandolo di spararlo alle gambe per «avergli mancato di rispetto». Ad ottobre dello stesso anno, invece, Cadorna avrebbe utilizzato un’arma per minacciare, questa volta, Immacolata Bonali nei cui confronti “zio Tonino” era fortemente adirato «per questioni non meglio specificate» ma che riguardavano lo stesso uomo già minacciato in estate. E così, armato di pistola calibro 6.35, in precedenza già appartenuta ad Antonio Pagliuso, secondo i racconti captati ancora nel magazzino in via Torre, la discussione con la donna era sfociata in una colluttazione fisica, nel corso della quale l’aveva afferrata per i capelli.
La condanna oltre la famiglia
La condanna a trent’anni inflitta a Felice Cadorna racconta più della sua storia personale e, di fatto, segna uno scarto netto tra l’immaginario classico della ’ndrangheta – fatto di cognomi ingombranti e capi riconoscibili – e una criminalità che oggi non bada più alla visibilità ma alla sostanza. E nel business del narcotraffico non serve essere un boss “di nome” in città o avere occupare una posizione centrale: basta essere affidabili, operativi e continui. Ed è su queste figure silenziose, più che sui simboli, che si misura ormai il peso reale del potere criminale delle ‘ndrine. (g.curcio@corrierecal.it)
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