OPERAZIONE MAUSER | Prigioniera del clan
REGGIO CALABRIA «Io stavo zitta, io subivo in silenzio. Cosa dicevo ormai, cosa… io non ce la facevo più, cosa dovevo dire, io mi ero arresa, quella non era vita, quello era sopravvivere, io avevo…
REGGIO CALABRIA «Io stavo zitta, io subivo in silenzio. Cosa dicevo ormai, cosa… io non ce la facevo più, cosa dovevo dire, io mi ero arresa, quella non era vita, quello era sopravvivere, io avevo solo quelle creature e basta». C’è tutta la rassegnazione dell’ex prigioniera piegata da una condanna a vita, nelle parole con cui Giuseppina Multari racconta agli inquirenti come la sua esistenza si fosse trasformata in un calvario, quotidianamente segnato da minacce, insulti, accuse e vessazioni. Un calvario cui la donna si era rassegnata impotente, ostaggio della paura di perdere chi più le stava a cuore, quelle bambine nate da un matrimonio sbagliato e che i Cacciola pretendevano di sottrarle. Una minaccia subdola sulla base della quale l’intero clan aveva tessuto l’intera ragnatela di costrizione, con cui aveva imprigionato non solo la donna – parente acquisita e mal sopportata da una famiglia intera che le rinfacciava quotidianamente il suicidio del marito – ma anche la sua famiglia d’origine, costretta ad assistere impotente al progressivo annientamento della figlia.
CONFESSIONI DI UNA MADRE
Una paura che neanche l’ingresso di Giuseppina nel programma di protezione sembra essere in grado di cancellare, se è vero che la madre della collaboratrice, Concetta Piromalli, nel raccontare agli investigatori dei primi passi di quella relazione che né lei né il marito desideravano per la figlia, afferma: «sapevamo, per sentito dire in paese, a che tipo di famiglia apparteneva il marito di mia figlia; non erano lavoratori come noi, sapevamo che era una famiglia di delinquenti, cosa facevano nello specifico non lo sapevamo. Io non so dire cosa è la mafia, ne ho sentito parlare ma non so se i Cacciola sono mafiosi». Più preciso invece sarà il padre della Multari, Francesco che agli inquirenti dirà chiaramente: «Quando mia figlia si è fidanzata con Cacciola Antonio io già sapevo che apparteneva a famiglie di delinquenti … OMISSIS …. Li temevamo perché sapevamo che erano capaci di tutto». Ma ai desideri della figlia non hanno saputo o potuto dire no i genitori di Giuseppina, che si sono dovuti accontentare di mettere in guardia quella che all’epoca era una ragazzina di vent’anni «i ragazzi si sono innamorati e non potevamo fare diversamente, però, io non ero molto contenta di questa unione; ho avvisato mia figlia ma lei non mi ha ascoltato». E i risultati di quell’unione si sono visti da subito. «I rapporti con i consuoceri erano normali – dice la Piromalli – si trascorrevano le festività insieme, spesso mio genero diceva di trascorrere il natale a casa di suo padre; più che un invito sembrava un ordine, ma noi andavamo». E si piegavano a quell’imposizione con il cuore in gola che danno i torti da ingoiare, i genitori di Giuseppina che nel frattempo erano costretti ad assistere impotenti alle violenze che la donna subiva.
DECIDE TUTTO IL BOSS
«Premetto che mia figlia non si è confidata inizialmente con me però avvertivo in lei sofferenza, non da subito ma dopo circa 1 o 2 anni dal matrimonio – dice forse con rabbia, forse con rimpianto la Piromalli agli investigatori –. Mia figlia, solo dopo qualche tempo, ha iniziato a confidarmi i suoi problemi: diceva che il marito si ubriacava e che andava con altre donne, ma non so dire se faceva uso di droghe. Qualche giorno, prima della sua morte, negli occhi di mio genero, ho visto qualcosa di strano però non so spiegare cosa gli accadeva. Mi sembrava stordito. Mia figlia veniva picchiata dal marito quando litigavano, non l’ho visto con i miei occhi però me lo ha raccontato mia figlia. In particolare una volta ero a casa di mia figlia lei si era recata a prendere qualcosa nel camion del marito e al ritorno lui l’ha aggredita e lei è salita sopra e mi ha detto “mamma mi ha ammazzata”. Una sera lui ha portato mia figlia e le bambine a casa mia, dove sono rimaste per qualche giorno, e lui a volto basso non mi ha proprio guardato, questo è accaduto un anno prima che lui morisse». Ma quella parentesi di libertà per Giuseppina e le bambine non è durata a lungo. E se il secco no con cui la collaboratrice ha all’epoca risposto ai tentativi di mediazione messi in atto dalla cognata Maria le ha concesso qualche giorno in più di respiro, quando si sono presentati quattro uomini della famiglia Cacciola, Giuseppina si è dovuta piegare. «Il suocero di mia figlia – fa mettere a verbale la Piromalli – in quel periodo era in carcere e probabilmente aveva dato ordine di riprendere mia figlia, difatti, una sera sono venuti a casa mia quattro uomini, tra cui suo cognato Gregorio, gli altri non ricordo il nome. Quella sera mia figlia, dopo essere stata portata dai quattro uomini a parlare con i Cacciola, è tornata sconvolta, ha preso i bambini ed è tornata a casa dei Cacciola con quegli uomini. Io, in quella circostanza, invitavo mia figlia ad attendere il rientro di mio marito e Gregorio mi diceva “voi fatevi i fatti vostri”».
DROGA, ALCOOL E BOTTE
Non è dato sapere cosa quei quattro uomini abbiano riferito a Giuseppina, ma di certo all’epoca nessuno sembrava in grado di mettere in discussione i perentori ordini che il boss avrebbe fatto pervenire dal carcere. Anche il figlio Antonio, che di quel matrimonio non ne voleva più sapere e da Giuseppina voleva divorziare, si era dovuto scontrare con i veti del padre. Si era dunque accontentato di rifugiarsi nell’alcool e presumibilmente nella droga, che avrebbero alterato le sue reazioni e lo avrebbero reso violento e imprevedibile. Anche con le figlie, che sarebbe stato solito terrorizzare accendendo l’aspirapolvere e posizionandola davanti alla porta o nella stanza o sul letto, per impedire alle bambine di muoversi. Comportamenti che sarebbero stati noti anche ai suoi più stretti familiari, che – racconta la collaboratrice – ogni volta che sentivano piangere le bambine salivano sopra per verificare se il padre avesse fatto loro del male. Ma dopo il suicidio di Antonio Cacciola tutto è cambiato e Giuseppina si sarebbe trasformata nell’unico capro espiatorio di tutti i guai. Persino la responsabilità delle relazioni extraconiugali del defunto perché – come le ripetevano le cognate Teresa D’Agostino e Maria Cacciola – «quello che non trovava in casa lo cercava fuori».
LA DONNA OGGETTO
Parole intrise del machismo più bieco e quasi tribale, che vuole la donna proprietà dell’uomo e per estensione, della famiglia di lui, la trasformano in una cosa, un oggetto, plasmabile e modellabile secondo altrui volontà ed esigenze. E tale era per i Cacciola – conferma anche la madre – la vita della collaboratrice. «Giusy – racconta – dopo la morte di Antonio andava tutte le mattine al cimitero, ma sempre accompagnata o dalla suocera o dalla cognata e io le guardavo i bambini. Giusy non poteva andare da sola al cimitero, dal medico, a casa mia e mia figlia non era in possesso delle chiavi di casa (..) nel periodo successivo alla morte di Antonio, Giusy non poteva più uscire di casa. Lei non aveva le chiavi del portone di accesso all’abitazione». Anche il circuito relazionale più intimo di Giuseppina sarebbe stato strettamente controllato dai parenti del marito. «Quando Giusy stava male – ricorda la Piromalli – io dovevo andare via ad un certo orario in quanto chiudevano il portone d’ingresso, spesso mandavano la nipote a chiedere se doveva intrattenermi ancora tanto per invitarmi ad andare via. Il portone lo chiudeva Gregorio, che normalmente rientrava per ultimo». E in caso di necessità, in casa non sarebbe potuto entrare neanche il dottore. «Quando è stata male Giusy e noi abbiamo chiamato la guardia medica, erano circa le ore 11 di sera – ricorda con costernazione la madre della collaboratrice – noi abbiamo mandato Giada (una delle figlie della donna ndr) a chiedere allo zio Gregorio di non chiudere il portone d’ingresso, anche se il medico non è venuto e le ha prescritto dell
e punture. La famiglia di Antonio non si interessava della salute di Giusy». Quella della donna sarebbe stata una vera e propria prigionia, scandita da obblighi perentori: «Era costretta ad andare a mangiare almeno una volta al giorno dai suoceri, le bambine se le portavano ovunque e quando volevano». E divieti: «Lei non poteva andare a fare la spesa: la spesa la facevo io per mia figlia; non poteva prendere a scuola le figlie: le bambine a scuola le andavano a prendere loro a scuola». Comandi cui neanche le figlie sarebbero riuscite a sfuggire. «Ricordo – racconta ancora la Piromalli – che Maria, la seconda figlia di Giusy, voleva che fosse la mamma a prenderla a scuola; per questo motivo, la famiglia di Antonio ha chiuso la bambina in cantina, tutto questo mi è stato raccontato da mia figlia, però non ricordo con precisione chi ha chiuso la bambina in cantina, mi sembra si trattasse di Giuseppe».
«FIRMA E NON GUARDARE»
Solo l’opposizione di Giuseppina avrebbe impedito che gli arretrati della pensione di invalidità della figlia Martina, trasformati dalla donna in buoni fruttiferi postali quando fisicamente sarebbe stata scortata all’ufficio postale perché li prelevasse, venissero ritirati e consegnati ai cognati. Ma nulla invece avrebbe potuto fare per altri soldi che le erano stati versati dal consorzio di bonifica, che sarebbero stati pretesi e ottenuti dalla cognata Maria: «Mi servono .. quei soldi servono, mi ha detto di darglieli papà». Allo stesso modo avrebbero intimato a Giuseppina di modificare in favore della stessa Maria Cacciola la titolarità della pensione di accompagnamento della figlia, come pure avrebbero obbligato la donna a firmare carte, contratti e transazioni senza neanche sapere di cosa si trattasse. Una sola volta – sintetizza il gip nell’ordinanza – «aveva “azzardato a dei fogli a dare un ‘occhiata”, ma era subito intervenuto Cacciola Vincenzo per intimarle: “firma!”».
LA DITTATURA DELLA PAURA
Ordini, comandi e imposizioni che i Cacciola avrebbero tramutato in legge con le minacce e il terrore – dice agli inquirenti la madre di Giuseppina che spiega anche perché tanto lei come la figlia non abbiano mai tentato davvero di ribellarsi a quella dittatura domestica. «Quando mia figlia ha tentato il suicidio ed è stata dimessa dall’ospedale, i suoceri l’hanno portata via con loro e non le hanno consentito di venire a casa con noi. Nella circostanza abbiamo avuto una discussione con i consuoceri, perché io ho detto che la avrei portata a casa mia. Giusi ha acconsentito perché aveva paura che le portassero via le bambine. (..)io non mi sono mai ribellata e non sono mai intervenuta perché Giusy non voleva che intervenissimo, perché aveva paura di perdere i suoi figli». Del resto, già in passato la figlia le avrebbe confidato il timore di essere uccisa. «Una volta – racconta la Piromalli – Giusy mi ha chiamato e mi ha detto “mamma stasera mi succederà qualcosa di brutto”, e mi ha spiegato che qualcuno della famiglia di Antonio le aveva detto di andare in posta per trasferire le somme di denaro che teneva in un conto a nome della bambina alla cognata Maria. In quella occasione, Giusy non ha fatto come volevano loro ma ha effettuato buoni fruttiferi a nome dei suoi figli. A seguito di ciò, aveva paura di essere uccisa dai suoceri. Avevo paura anche per me. Anche io avevo paura di essere ammazzata». E c’è tutta la frustrazione di un padre – che solo troppo tardi si sarebbe reso conto dello stato di costrizione in cui la figlia viveva – nelle parole con cui Francesco Multari dice agli inquirenti: «Io le cose purtroppo le ho sapute dopo, però mia figlia non ha mai detto nulla per paura di essere uccisa». E ancora: «Io non ho mai parlato con Cacciola Domenico della situazione di mia figlia, perché non erano persone ragionevoli con cui si poteva parlare. I rapporti tra i Cacciola e mia figlia erano peggiorati dopo il suicidio di Antonio, perché le attribuivano la responsabilità della sua morte. Io prima della morte di Antonio non sapevo tante cose; ho saputo solo dopo che Antonio la maltrattava, che si ubriacava. Non sono mai andato dai carabinieri a denunciare tutti i soprusi che subiva mia figlia, altrimenti, tutti i componenti della mia famiglia sarebbero spariti tutti, uno per volta. Io non ho mai visto mio genero fare uso di droghe ma so, per sentito dire, che ne faceva uso e che frequentava altre donne».
I CACCIOLA «SCHIAVISTI»
Un incubo per Giuseppina «maltrattata dal marito fino a quando è stato in vita, dopo la sua morte, viene reificata, anzi nullificata, dalla famiglia del marito» dice con durezza il gip, che sintetizza: «Perde totalmente – con limitate eccezioni (a date condizioni) per eventi straordinari (la scomparsa del fratello o l’intervento al cuore del padre) e con adeguata “scorta” – la libertà di uscire di casa, al punto che non può più andare a fare la spesa, né comprare vestiti per sé e per le figlie o andare a trovare i propri genitori. Del tutto impensabile che continui a guidare la sua autovettura. Può, anzi deve allontanarsi dalla sua abitazione per soddisfare i doveri imposti dai Cacciola (recarsi al cimitero ogni giorno) o i loro bisogni (prelievi bancari o postali, sottoscrizioni di atti notarili, …. ), ma sempre sotto accompagnamento e sorveglianza di un membro della famiglia Cacciola (per lo più la suocera o le cognate Maria e Jessica). E non si tratta – sostiene il gip – «di mere limitazioni della facoltà di locomozione oppure di semplici maltrattamenti lesivi dell’integrità psicofisica della vittima, ma di una serie sistematica di comportamenti offensivi che hanno compromesso fortemente tutti gli ambiti più significativi di espressione della personalità umana: spostarsi, curarsi, relazionarsi, essere genitore». Da essere umano Giuseppina si sarebbe trasformata in un oggetto di proprietà della famiglia Cacciola. Da qui l’accusa di riduzione in schiavitù. Sottolinea infatti il gip Scortecci che «vi è stato un concreto esercizio di poteri corrispondenti all’esercizio del diritto di proprietà che ha relegato la Multari ad una condizione inumana e degradante, nel senso di averla sottoposto ad un trattamento privo di qualsiasi connotato che (nella sensibilità comune) identifica la dignità umana, con l’effetto di degradarla dallo status di persona, soggetto di diritti, a res, oggetto di diritti, strumento di soddisfazione di bisogni del proprietario, fino al punto che le minacce di morte appaiono l’ulteriore segno della sussistenza del massimo potere del proprietario, quello di distruzione della cosa che gli appartiene».
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it