Tempo addietro scrivevo su Astrid.eu un articolo dal titolo provocatorio “Se abolissimo le Regioni?”, ove prendevo atto di quanto ivi stava accadendo da decenni e di quanto fosse necessario intervenire, tempestivamente, con una efficace e bene mirata spending review. Un adempimento doveroso cui andavano, da tempo, sottoposte le Regioni per il dispendio sistematico e progressivo di risorse economico-finanziarie e di energie lavorative, altrove più utilmente collocabili, nonché per l’eccessiva presenza di personale “politico”, operante al loro interno, e per la corruzione dilagante. Le previsioni contenute nella legge di Stabilità 2015, attualmente all’esame del Parlamento, intervengono anche su una tale problematica, cominciando a imporre al sistema autonomistico territoriale pesanti risparmi: esattamente 4 miliardi di euro alle Regioni. Queste ultime, dapprima in rivolta, cominciano a confrontarsi ragionevolmente con il governo, non disdegnando (pare) di affrontare anche il percorso di revisione della spesa nella sanità, riconoscendo con ciò sprechi generalizzati. Ovviamente una tale considerazione diventa più fondata nelle regioni comprese in quell’area geografica che formava il Mezzogiorno, ove lo spreco, prodotto sia in termini di malversazione delle risorse che di ingigantimento del fenomeno dell’occupazione clientelare fine a se stessa, ha fatto da padrone da sempre. Due grandi “guai” per il sistema Repubblica che alimentano convincimenti tendenti a sopprimere le Regioni, in un più generale processo di revisione della Costituzione. Sono in molti a pensare che le stesse devono cambiare. In attesa che la griglia istituzionale della Repubblica venga modificata radicalmente: con la scomparsa definitiva delle Province (ex articolo 138 Costituzione), l’insediamento a regime delle Città metropolitane, una sensibile sfoltitura del numero dei Comuni. Sino a dimezzarne la presenza attraverso un’incentivazione delle fusioni, la formazione delle mega-Regioni con a esse attribuite potestas di più ampia portata rispetto a quella attuale – ivi compresa quella di esercitare una concreta e diffusa rappresentanza – a livello comunitario ma anche internazionale, funzionale alla conclusione di strumenti negoziali indispensabili per la crescita del Pil regionale. Un modo, questo, per rilanciare le attuali Regioni, criticate in lungo e in largo, per la evidente disparità tra ciò che assorbono in termini di risorse pubbliche rispetto a ciò che, di fatto, producono. Esse costituiscono il sito istituzionale ove produrre la legislazione di dettaglio ed esercitare la programmazione degli interventi necessari alla gestione del territorio in senso lato nonché il terminale amministrativo dell’erogazione ai cittadini delle prestazioni essenziali, prima fra tutte quella socio-sanitaria. Quanto a quest’ultima, fa acqua nel Centro-sud, piena zeppa di debiti e incapace di chiudere generalmente i bilanci in equilibrio, che fa cifra sul bilancio pubblico. Considerato un tale non trascurabile peso istituzionale, segnatamente incidente sul corretto funzionamento della Repubblica, e in attesa di ricorrere a una rivisitazione dell’intero sistema della pubblica amministrazione territoriale, magari prevedendo una sostanziale aggregazione delle attuali Regioni – da perfezionarsi in relazione alle omogeneità territoriali e delle sinergie realizzabili sulla base delle caratteristiche “produttive” – occorre non stare fermi. Necessita rimuovere i fenomeni negativi che caratterizzano lo stato dell’essere delle Regioni, maggiormente laddove rappresentano il problema piuttosto che la soluzione relativamente al governo del territorio e alle iniziative produttive. Un compito, questo, che dovranno esercitare i governatori, ma anche quelli che aspirano a essere tali in quelle Regioni che andranno al voto l’oramai prossimo 23 novembre. Una tale occasione, proprio perché protesa a generare un confronto tra quella che è – per funzionamento burocratico – una delle migliori Regioni italiane (l’Emilia-Romagna), e quella (la Calabria) che rappresenta il fanalino di coda per antonomasia in tutte le classifiche di merito, ha costituito infatti una bella sfida per i candidati. Invero, gli aspiranti governatori della Calabria hanno avuto e avranno modo di misurarsi sulle proposte e saranno, di certo, premiati per quelle che saranno più innovative, ma concrete, e fondanti di un nuovo modo di concepire il governo regionale. Insomma, si sta via via profilando una bella prova finale per i due maggiori competitor calabresi, chiamati a testimoniare all’elettorato: il riassunto di se stessi; cosa farà da grande la regione Calabria; come la Regione diventerà esempio di efficienza, di efficacia ed economicità; come saranno resi dignitosamente esigibili i diritti sociali, fra i quali la sanità massacrata dalla politica e dal commissariamento; quando i giovani calabresi potranno finalmente continuare a essere tali, programmando nella loro terra il loro lavoro, la loro casa e la loro famiglia. Una contesa elettorale, dunque, mantenutasi sino a oggi a buoni livelli e ad alti profili, condotta peraltro con garbo. Decisamente migliore la performance dei candidati di centrosinistra, alcuni dei quali di pregio amministrativo, che hanno fatto tesoro delle loro trascorse esperienze negli enti locali.
*Docente Unical
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