REGGIO CALABRIA In passato era stato un finanziere, in forza al comando provinciale di Reggio Calabria, a passare al clan Tegano quegli “scoop” – così li chiamava – che consentivano agli arcoti di vanificare anni di lavoro di inquirenti e investigatori dandosi alla macchia. Ancora oggi però «l’elemento più significativo di questa operazione – ammette con rammarico il procuratore capo della Dda Federico Cafiero De Raho – è la possibilità, attraverso figure di riferimento a noi ignote, di acquisire informazioni sulle indagini. È questa la rete difficile da individuare anche perché non ci si espone con l’indicazione di nomi. I soggetti ne parlano tra loro e fanno capire che hanno esterni in grado di dare notizie sulle indagini. Riferimenti – ha detto ancora il procuratore capo – che per loro sono fonti stabili che possono avvicinare ma che noi ignoriamo». Sapevano di avere gli inquirenti con il fiato sul collo dunque c’era il rischio – molto concreto – che si dessero alla fuga, per questo la Dda ha ordinato alla Squadra mobile diretta da Gennaro Semeraro di stringere le manette ai polsi dei 25 fra reggenti, affiliati e fiancheggiatori del clan Tegano, arrestati nella notte nel corso dell’operazione Il Padrino. «Un’indagine importante che ricostruisce legami e attività della rete che ha sostenuto la latitanza di Giovanni Tegano» da sottoporre ora al vaglio del gip per la convalida ma che per la Dda si basa su «un quadro indiziario che riteniamo chiaro e necessitava intervento immediato».
DAI REGGENTI AL PRIMARIO
Come di costume, il procuratore Cafiero De Raho non si lascia andare a commenti, ma è visibile la soddisfazione per l’indagine coordinata dai pm Giuseppe Lombardo e Stefano Ammendola che ha ricostruito in dettaglio l’organigramma del clan Tegano, andando a colpire la colonna vertebrale degli arcoti. In manette sono finiti infatti personaggi del calibro di Antonio Lavilla e Eddy Branca, generi del boss divenuti reggenti del clan dopo l’arresto dei cognati Michele Crudo e Carmine Polimeni, ma anche insospettabili come la sorella dell’imprenditore Pasquale Rappoccio, coinvolto in più procedimenti come testa di legno dei clan, e professionisti – almeno formalmente – al di sopra di ogni sospetto come il primario dell’unità di laboratorio analisi di Polistena, Francesco Pellicano. «Qualche invisibile – si fa scappare al riguardo il Questore Guido Longo – diventa visibile. Ed è proprio questo il punto di forza dei clan: poter contare su una rete di soggetti che apparentemente svolgono attività lecite, ma al servizio dell’organizzazione».
DIECI ANNI DI REGGENZA
Un’organizzazione di cui oggi sono stati messi a nudo oltre dieci anni di metodi, pratiche, regole interne, e descritta fin nei più segreti particolari, dalle modalità di comunicazione, ai luoghi di incontro, ai ruoli che nel corso del tempo hanno ricoperto i vari affiliati. L’immagine che ne emerge è quella di un tumore che via via che ne viene asportato un pezzo – con operazioni, arresti, condanne – trova la forza per riformarsi e continuare a imperversare, in stretta connessione con gli affiliati che dal carcere non hanno mai smesso di impartire ordini e direttive. Un tumore a trazione familiare. Dalla valorizzazione degli elementi messi insieme nel corso delle indagini che in passato hanno portato alla cattura del boss Giovanni Tegano, attualizzate anche grazie alle rivelazioni di collaboratori di giustizia come Roberto Moio, Nino Fiume, Consolato Villani, emerge infatti che a passarsi il testimone della reggenza degli arcoti già dai tempi della latitanza del boss Tegano erano i suoi quattro generi Michele Crudo, Carmine Polimeni, Edmondo Branca e Antonio Lavilla – a ciascuno dei quali faceva capo un ben preciso gruppo criminale – con i quali collaboravano con un ruolo qualificato i nipoti del boss, Giorgio (Franco) Benestare e Paolo Schimizzi. Sarà proprio la scomparsa di quest’ultimo – rampollo degli arcoti, secondo alcune ipotesi investigative sacrificato da parte della sua stessa famiglia con l’assenso di Giovanni Tegano – a creare una spaccatura all’interno del clan. Da una parte si arroccheranno dunque Giuseppe Tegano e i suoi familiari, dall’altra il resto della famiglia accusata di essere all’origine della scomparsa di Schimizzi. Un’ulteriore spaccatura si creerà fra i generi del latitante, Crudo, Polimeni e Branca ed i nipoti del boss Antonio Polimeni, Angelo e Franco Benestare. Tutti conflitti monitorati – e spesso ricomposti – da Giovanni Tegano in persona, che stando a quanto emerge dal fermo, nonostante la latitanza non ha mai smesso di seguire da vicino le sorti e le evoluzioni della famiglia. O almeno, questo è quanto si evince da intercettazioni, pedinamenti, attività di videosorveglianza che negli ultimi dieci anni sono stati disposti nei confronti degli esponenti del clan Tegano. Attività grazie alle quali oggi i pm sono in grado di tracciare un quadro preciso dei ruoli e dei rapporti interni agli arcoti.
I MILLE TENTACOLI DEL DIRETTORIO
Se il centro decisionale della famiglia è rimasto saldamente in mano ai quattro generi del boss, che si sono avvicendati tanto nella direzione operativa come nella gestione della latitanza dell’importante suocero, attorno a loro l’indagine ha tracciato un organigramma ramificato di soggetti con diverso ruolo e peso. Di certo ne era elemento di spicco – e non solo perché genero dello storico luogotenente degli arcoti Carmelo Barbaro – Francesco Caponera, conosciuto come Ciccio “‘u niuru”. Longa manus del più blasonato suocero, si è inserito quasi a pieno titolo nel gotha decisionale del clan con il compito di gestire i numerosi canali di approvvigionamento economico. Ma di certo un ruolo di rilievo avevano anche i fratelli Giovanni e Francesco Pellicano definiti dagli inquirenti «soggetti a disposizione della ‘ndrina per organizzare gli incontri tra i sodali e tra questi e terzi». Saranno proprio loro a curare i rapporti fra i Tegano e il potente clan Pelle-Giorgi del mandamento jonico, come pure la raccolta delle preferenze su mandato degli arcoti per l’allora aspirante consigliere regionale Nino De Gaetano. Ma soprattutto “l’ambasciatore” Giovanni Pellicano si convertirà in uno degli elementi cardine del sistema di comunicazione riservato utilizzato dal clan per evitare le intercettazioni. Un sistema che ha funzionato per lungo tempo anche grazie al “ragioniere” Giovanni Malara e dei suoi quattro figli, Paolo, Domenico, Marco e Sergio, cugini di Carmine Polimeni e formalmente titolari del banco dei meloni di Pentimele – consueto punto di incontro del clan – ma in realtà solerti messaggeri degli arcoti. Ulteriore canonico punto di incontro era l’esercizio commerciale “Il Mercatone della Frutta 2”, riconducibile alla famiglia “satellite” dei Polimeni-Saraceno e attorno al quale ruotavano diverse figure fondamentali per le comunicazioni interne, come Domenico Paolo Saraceno.
LE DONNE FERMATE
Un capitolo a parte dell’indagine è invece dedicato alle donne che ruotavano attorno ad Antonia Rappoccio, sorella del noto imprenditore Pasquale e madre di quel Giancarlo Siciliano che si occuperà personalmente della gestione dell’anziano boss. Attorno alla donna, oggi accusata di concorso esterno in associazione mafiosa ruotano diverse comprimarie – Giuseppina Rechichi e la figlia di questa, Silvana Marra – che hanno giocato un ruolo di primo piano nello spostamento materiale del padrino Giovanni Tegano dal covo di Archi a quello di Terreti. Anche loro a pieno titolo parte di quella «rete instaurata per consentire al capo Giovanni Tegano di guidare la cosca e seguirne gli interessi dai nascondigli dove trascorreva la sua vita da latitante».
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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