COSENZA Sono solo otto i minuti di ritardo, quelli che sabato sera hanno preceduto l'”Otello” di Luigi Lo Cascio. La platea del “Teatro auditorium Unical” è gremita di gente che freme ed è impaziente di vedere la riscrittura di una delle tragedia più amate di Shakespeare. Incitano l’apertura del sipario con d’applausi. Si deve aspettare solo un altro istante e poi l’ampio palco del teatro si svela davanti al pubblico. Un enorme telo bianco si spiega sul fondo della scena e immagini di fazzoletti con fragole intrise di sangue si alternano a quelle di vermi sacri da cui proviene la seta con cui egli stesso è stato intessuto. È la voce di Otello/Pirrotta che recita: «M’impressti u fazzulettu, pi favuri, chiddu chi iu ti desi comu pignu d’amuri». Si è in medias res: il fazzoletto da cui parte la tragedia, attorno a cui ruotano l’inganno di Jago e la follia del “Generale”. Dall’alto della sala la maestosità della scenografia – curata da Nicola Console e Alice Mangano – , riconsegnano uno scenario solenne. Non si è a Venezia, ma neanche in nessun altro luogo. Si è semplicemente lì, in quell'”hic et nunc” in cui passione, gelosia, inganno ruotano attorno all’elemento fondamentale della drammaturgia scritta da Lo Cascio: il rapporto esclusivo tra l’uomo e la donna. Parte da Shakespeare, ma va oltre, iniziando dalla lingua: siciliano e italiano (parlato soltanto da Desdemona) in endecasillabi, settenari e versi sciolti; dagli interpreti: solo Otello, Desdemona, Jago e un soldato, personaggio inventato che si fa coro e coscienza (in ordine Vincenzo Pirrotta, Valentina Cenni, Luigi Lo Cascio e Giovanni Calcagno); e i tempi: un unico lungo atto (contro i cinque originari), intenzionalità del regista siciliano di non voler riproporre l’opera originale, quanto più cimentarsi su una versione ridotta «Mettere in scena l’intero testo, e per di più nella versione compiuta e statuaria dell’originale, appare impresa fuori misura» spiega. Otello sta di spalle al pubblico su una sedia legata all’alto con delle corde, la «seggia di tortura » come la definirà Jago in un secondo momento. Con lui gli altri tre interpreti. Su un telo trasparente grande al pari del sipario, sono sovraimpresse le figure di altri personaggi/amici che non compariranno mai. Eccolo il “Moro” che Vincenzo Pirrotta riconsegna in tutta la sua forza fisica e vocale. Una voce che appartiene al “cunto” e alla “diatonalità”, grazie alle quali crea il suo dolore, l’amore struggente e la dolcezza, il pianto e la follia, in un martellante equilibrio in cui il possente corpo sta sempre al suo servizio. Si contorce e striscia, quando l’inganno del tradimento giunge al suo orecchio, e danza sulle note delle proprie escursioni vocali di cui ha sempre un impeccabile controllo. «È un fuoco che brucia lentamente e poi divampa, non solo con la voce, ma anche con il corpo. Ho cercato di rendere tutto questo » spiega. Sta in ombra, rispetto al delirio, il minuto Jago che osserva, come un abile maestro, l’opera che piano egli stesso costruisce «nto palcu du suppliziu». Porta dietro di sé il cancro della dannazione che è comune destino: «Stu cancru non si ndi va, ncoddu vi resta, ncoddu attaccatu. Picchì lu cancru non è na cosa luntana, è a cosa chiu vicina c’aviti. Siete vo atri stissu u cancru, semu no atri, razza chi nasci già degenerata » è un pezzo di corpo che si spezza e impazzisce. Osserva, nel buio del proscenio, i disegni della sua mente diabolica prendere vita e, a mano conserte nel fondo della scena, il delirio finale del suo generale, che crede che «comu a Jago non c’è nuddhu». Ma Jago è un «pinzeru ca non canusci patruni», commenta di se stesso. Quando tutto è già compiuto, durante una posa ritrattistica dietro la cornice di un quadro, uno straordinario Lo Cascio, svelerà l’origine del suo «pinzeru», la convinzione che «i fimmini su tutti puttani », confessando lontani tradimenti materni. Non basta ad assolverlo. La dolce Desdemona, ha già perso il suo respiro. La donna che voleva essere guerriera al pari dell’uomo che amava, il cui desiderio la spingeva ad andare con lui in battaglia, giace morta, vittima di un destino predestinato. Con loro il soldato/coro – che accompagna e svela le vicende prima che l’occhio dello spettatore possa assistervi – , accompagnerà un Otello ormai privo di senno, in un viaggio epico sulla luna alla ricerca della sua Desdemona, nel luogo in cui «finisciunu tutti i fimmini chi supra a terra nui mmazzammu». Un viaggio all’interno della follia, alla ricerca del raziocinio, del fazzoletto incriminato da riportare sulla terra per poterne fare un altarino. «L’amuri è nu cielu stellatu. Talìa che strazianti, miravigghiusa biddizza, u firmamentu» dirà osservando l’Universo in questo viaggio su un ippogrifo che si spezza l’ala e non potrà più riportarlo indietro. Spettacolo magistrale perché tutti gli elementi che lo compongono lo sono. La standing ovation non sorprende.
Miriam Guinea
x
x