REGGIO CALABRIA Si dovranno presentare il prossimo 20 ottobre di fronte ai giudici del Tribunale di Reggio Calabria i sette imputati del procedimento “Rifiuti spa 2” che hanno scelto di essere giudicati con il rito ordinario. Il gup Scortecci ha infatti rinviato a giudizio Antonino Battaglia, Luigi Catalano, Gaspare Giuseppe Gozzi, Salvatore Laboccetta, Giuseppe Maria Rosario Longo, Bruno Pellicanò, e Carmelo Catalano, tutti considerati a vario titolo coinvolti nel gigantesco sistema di business costruito dal clan Alampi sulla gestione dei rifiuti in Calabria. Fatta eccezione per Valentino Alampi, per il quale è stato dichiarato il non luogo a procedere per problemi relativi a questioni di estradizione, il processo inizierà il 4 settembre per i sedici imputati che hanno scelto di essere giudicati con il rito abbreviato. Fra loro non ci sono solo il capoclan Matteo Alampi, la moglie Maria Giovanna Siclari e quelli che per i magistrati sono gli elementi di spicco della nota cosca imprenditrice, ma anche i tre professionisti che secondo i magistrati Rosario Ferracane e Giuseppe Lombardo hanno fornito loro un fondamentale contributo, l’amministratore giudiziario Spinella e i penalisti Giulia Dieni e Giuseppe Putortì. Entrambi i legali, nonostante abbiano strappato l’annullamento dell’ordinanza sulla base della mancanza di attualità delle esigenze cautelari in sede di Riesame, andranno a giudizio per associazione mafiosa perché «si mettevano a completa disposizione degli interessi della cosca cooperando con gli altri associati nella realizzazione del programma delittuoso del gruppo».
IL BUSINESS DEGLI ALAMPI Al centro dell’inchiesta Rifiuti spa 2 è finito il clan Alampi – nota cosca “imprenditrice”, con forti interessi economici in tutta Italia e all’estero, gestiti all’ombra del più potente clan Libri – i cui capi e sodali erano riusciti ad allungare i propri tentacoli soprattutto nel settore dei rifiuti, ma anche in altri contesti nel settore degli appalti ecologici, nel cui ambito sono stati accertati gli accordi tra le cosche reggine per la spartizione degli enormi profitti derivanti dalla gestione fraudolenta delle discariche regionali, che i boss anche dal carcere riuscivano a spartirsi, grazie anche – stando a quanto emerso dalle indagini – ai messaggi che da dietro le sbarre i legali dei detenuti facevano filtrare. Allo stesso modo, per i magistrati il clan era in grado di mantenere sotto il proprio controllo imprese sequestrate, grazie alla complicità di un amministratore giudiziario, Rosario Spinella, arrestato e poi scarcerato insieme ai due penalisti. Ma quando l’operazione è stata eseguita, in manette è finito anche l’imprenditore ‘ndraghetista Matteo Alampi arrestato insieme alla moglie Maria Giovanna Siclari in Francia. Subito dopo la scarcerazione avvenuta nel mese di marzo 2014, al termine di un periodo di detenzione per associazione mafiosa, Alampi si era infatti trasferito a Villefranche sur mer, per sottrarsi alla notifica della sorveglianza speciale. Per i pm reggini, né il carcere né la lontananza dalla Calabria avrebbero interrotto gli affari criminali di Alampi è ritenuto la mente imprenditoriale dell’organizzazione criminale, già capeggiata dal padre Giovanni Alampi, capo del “locale” di Trunca, attivo nell’omonima frazione del capoluogo reggino.
AZIENDE CONTROLLATE A DISTANZA «Mediante il fittizio paravento giuridico di un’impresa, la Rossato sud s.r.l. ed il Consorzio Stabile Airone sud, della quale continua a mantenere la direzione e la gestione, nonostante i provvedimenti ablativi dell’Autorità giudiziaria – scriveva infatti il gip Barbara Bennato – la cosca riesce a perseguire i propri scopi illeciti e ad assicurarsi guadagni dall’esercizio di attività imprenditoriali dalle quali è formalmente estranea». Il meccanismo – hanno svelato le indagini – era sofisticato e necessitava dell’appoggio di professionisti come Lauro Mamone, scelto da Matteo Alampi e tanto fedele e scrupoloso nell’attuazione delle direttive da essere definito dal gip vero «alter ego» del boss, e del direttore tecnico Domenico Alati. Seguendo scrupolosamente le direttive di Alampi, «vero e proprio regista dell’impresa» – all’epoca detenuto ma in grado persino di scegliere una nuova squadra di collaboratori, tra impiegati, operai e autisti già in passato al suo servizio nella Edilprimavera – i professionisti scelti dal boss avrebbero provveduto a risanare economicamente i bilanci dell’impresa sequestrata al clan, con una mirata attività di saldo dei debiti e concomitante recupero dei crediti, ma soprattutto con il sistematico ricorso ai tradizionali metodi di intimidazione mafiosa nei confronti di fornitori e clienti. Nel frattempo però, la Edilprimavera veniva progressivamente svuotata e utilizzata esclusivamente per il nolo a freddo dei mezzi d’opera a tutto vantaggio della Rossato Sud e del Consorzio Stabile Airone Sud. Ed erano proprio queste le società che oltre ad assumere fittiziamente personaggi del calibro di Diego Rosmini e Francesco Condello – il figlio del superboss Pasquale – come di altri uomini riconducibili ai clan, avrebbero fatturato operazioni inesistenti o emesso fatture ben al di sopra delle reali spese per creare il nero necessario per le necessità della cosca o per “retribuire” la cosca territorialmente competente, quando i lavori si svolgevano fuori dall’area di competenza degli Alampi.
a.c.
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