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La sfida di Renzi: «O me o la Costituzione»

Le dichiarazioni del presidente del Consiglio, in queste ore di fine anno, dimostrano l’assenza di ogni pur minimo dubbio sulla strategia parlamentare e costituzionale dei mesi a venire. Se in tale…

Pubblicato il: 01/01/2016 – 1:19
La sfida di Renzi: «O me o la Costituzione»

Le dichiarazioni del presidente del Consiglio, in queste ore di fine anno, dimostrano l’assenza di ogni pur minimo dubbio sulla strategia parlamentare e costituzionale dei mesi a venire. Se in tale strategia il pluralismo politico e gli equilibri propri di una democrazia costituzionale vi si frappongono che li si mandi pure al macero!
Questo è il riepilogo (naturalmente molto schematico) che potrebbe farsi qualora nella riflessione si fanno rientrare le scelte effettuate con la nuova legge elettorale (cd Italicum), l’assenza di ogni previsione di ‘pesi’ e ‘contrappesi’ nella ridefinizione del bicameralismo e le scelte innovative seguite nella ri-centralizzazione di molte delle funzioni (concorrenti ed esclusive) delle Regioni (le quali meritano comunque un profondo ripensamento). Le ultime due scelte appena richiamate sono ancora in corso di adozione nella revisione costituzionale in atto, la prima è già legge (sia pure limitata alla sola Camera dei deputati) e sarà vigente a partire dal 2016, a seguito degli esiti del referendum costituzionale, al successo del quale il Presidente del Consiglio ha ricollegato la sua permanenza in politica e al governo.
Prima di procedere oltre nell’avvio di una breve riflessione sui gravi limiti della riforma elettorale (legge n. 52/2015, cd Italicum), è il caso di chiarire che le riflessioni che seguono non hanno finalità di tipo politico-partitiche (nel senso che non si prefiggono critiche partigiane, pro o contro Renzi) e non certo perché non ve ne sarebbero le ragioni. Esse si limitano a proporre all’attenzione del lettore – che fra qualche mese sarà chiamato a votare ‘si’ o ‘no’ alla conferma delle scelte di revisione costituzionale – le ragioni della forte preoccupazione, e dello stesso allarme democratico, alla base della netta contrarietà nei confronti delle previsioni della nuova legge elettorale.
La prima fra queste preoccupazioni riguarda la stessa legittimità costituzionale dell’Italicum, considerando che la nuova legge elettorale prevede l’assegnazione del premio di maggioranza alla lista che vince anche solo al ballottaggio, senza alcuna considerazione del consenso reale registrato dalla stessa al primo turno; l’assegnazione del premio elettorale, inoltre, avviene senza alcuna previsione di un numero minimo di elettori partecipanti alla votazione.
In questo senso, l’Italicum non segna una vera discontinuità rispetto alla legge già censurata dalla Corte costituzionale (con la sentenza n. 1/2014). Ma questo è un argomento forse troppo complesso da sottoporre alla attenzione e alla vigilanza democratica del cittadino-elettore; in fondo, egli potrebbe assumere che si tratta pur sempre di una questione tecnica e che per questo a doversene fare carico sono responsabili gli organi tecnici competenti.
Una simile osservazione, invero, non è del tutto peregrina e difatti vi sono associazioni, avvocati e singoli cittadini esperti della materia che da settimane si stanno impegnando (organizzandosi in Comitati territoriali per il NO alla revisione costituzionale) a sollevare dubbi di costituzionalità della nuova legge elettorale, assumendosi appunto che non vi sono grandi differenze rispetto alla precedente legge, la quale non impropriamente venne definita ‘Porcellum’ dal suo estensore parlamentare. Il ricorso a questo strumento di tipo giurisdizionale ripercorre lo stesso iter che aveva portato la Corte di Cassazione a ritenere non manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale, rimettendolo per questo al vaglio della Corte costituzionale.
Se questa è una strada già intrapresa, e comunque complessa nella sua pratica comprensione da parte dei cittadini nella loro complessità, ciò che merita di essere ora sottoposto all’attenzione e alla critica del lettore risiede appunto nei limiti della strategia elettorale ma soprattutto delle scelte istituzionali accolte nell’Italicum e nelle conseguenze che l’applicazione di tale legge avrà sullo stesso parlamentarismo del Paese, sulla sua forma di governo. Una strategia, quest’ultima, che avrà modo di affermarsi senza necessità di mettere mano alle disposizioni della Carta costituzionale in tema di Governo. Una strategia – quest’ultima – che va ben oltre i limiti della democrazia maggioritaria, in quanto aggiunge un profilo di rafforzamento della Premiership fondata direttamente sulle elezioni.
È in questo senso che diviene fondamentale comprendere come le modalità tecniche accolte nella legge elettorale per distribuire l”irragionevole’ premio elettorale ivi previsto (che oscilla fra 130 e 150 seggi parlamentari, a seconda che il partito politico vinca al primo turno o al secondo turno) incidano sulla trasformazione profonda della democrazia costituzionale del Paese e dei relativi equilibri costituzionali, con grave pregiudizio dell’Opposizione. Tali equilibri vengono radicalmente messi in questione soprattutto (ma non solo) dalle previsioni dell’Italicum in tema di potere di nomina, da parte di un solo partito politico (che vince e che per tale ragione si aggiudica il premio elettorale, che lo porterà ad assicurarsi il 55% della maggioranza parlamentare), degli organi di garanzia costituzionale (Presidente della Repubblica, un terzo dei giudici costituzionali, tutti i membri laici del CSM e dei consigli di presidenza delle magistrature speciali, nonché delle diverse Autorità).
È appunto sulla negazione delle regole della ‘democrazia costituzionale’ (e sulle conseguenze, al contempo, inadeguate dalla prospettiva del sistema politico e di dubbia legittimità se considerate dalla prospettiva del rispetto degli equilibri costituzionali), pertanto, che occorre soffermare maggiormente l’attenzione.
Con la riforma costituzionale, in unum con la riforma elettorale, cambiano in modo netto le condizioni di funzionamento (del sistema politico e soprattutto) della vigente forma di governo parlamentare, muovendo verso una nuova forma di governo parlamentare priva di “contro-poteri” interni posti a garanzia che un potere costituzionale non assoggetti al suo volere gli altri due poteri, quello legislativo e quello giurisdizionale.
In questo senso, non è l’Italicum in sé e per sé considerato a creare allarme democratico, e quindi a porre problemi di costituzionalità, quanto piuttosto il combinato disposto di tale disciplina elettorale con la riforma costituzionale Renzi-Boschi, nel quale risulta assolutamente irragionevole l’equilibrio previsto fra rappresentanza politica e governabilità. Naturalmente, il Parlamento sarebbe ancora in tempo per intervenire con le opportune correzioni, al momento della seconda lettura del testo di revisione, ma lo scontro già registrato nelle aule parlamentari e le dichiarazioni roboanti della maggioranza di governo e del suo leader fanno pensare che una simile strategia non rientri nei loro pensieri.
La nuova legge elettorale, in tale ottica, “conduce e induce all’elezione diretta del Presidente del Consiglio”, come bene osserva Ilvo Diamanti (“E intanto avanza il premier Italicum”, in La Repubblica 27 aprile 2015), prefigurando una modifica materiale della forma di governo vigente senza porre mano espressamente alle disposizioni costituzionali di merito.
In questa prospettiva, come è stato già sottolineato, “occorre riconoscere che la (ingiustamente definita) ‘legge truffa’ era di gran lunga migliore rispetto all’Italicum perché poneva la soglia al 50,01% (e attribuiva il premio alla coalizione e non alla lista” (A. Saitta, Forum sull’Italicum. Nove studiosi a confronto, Giappichelli, 2015). Nella stessa direzione, è stato egualmente ricordato come, per individuare ipotesi elettorali simili di investitura diretta di un Governo fondato sul partito unico, occorre risalire molto indietro nel tempo, in quanto a partire dal II Governo Badoglio (24 aprile 1944) i governi che si sono succeduti nel Paese sono stati sempre governi di coalizione. Osserva in proposito Domenico Gallo (su Il Ponte, nn. 8-9/2015) che “fu proprio la legge elettorale dell’epoca (legge Acerbo) che consentì l’avvento di un
partito unico al governo, attribuendo una maggioranza garantita al ‘listone'”. Una citazione – questa – che non vuole affermare null’altro rispetto a quanto le parole utilizzate vogliono esprimere.
Rimane in ogni caso che un principio di cautela applicato alla revisione costituzionale non fa risultare certo eccessiva (o fuor di luogo) la richiesta di regole congrue a garanzia degli equilibri costituzionali (è ciò che intendiamo quando parliamo di democrazia costituzionale). La democrazia, così, se ha nella Costituzione una sua garanzia di indefettibilità, è appunto nelle mutua, equilibrata, relazione fra poteri dello Stato e soprattutto fra Esecutivo e Legislativo che trova il proprio fondamento. Si vuole dire, in parole più semplici, che pur potendo farsi un discorso più avanzato, fondato sull’attuazione costituzionale nei relativi istituti di partecipazione politica, la linea che qui seguiamo è quella del minimo comun denominatore, la linea cioè della difesa della Costituzione nei suoi valori e meccanismi di fondo. Tutti dovrebbero e sono chiamati a difendere una simile strategia, perché tutti i partiti politici devono avere la chance di alternarsi al governo del Paese.
C’è un ultimo profilo da richiamare ed è quello relativo alla strategia volta ad introdurre nel sistema politico-costituzionale una forma di governo definibile di ‘premierato assoluto’ (come l’aveva bene qualificato il mai tanto compianto Leopoldo Elia). Nel 2005, una simile strategia fu appunto seguita dal Governo di centro destra. Senza voler minimamente assolvere quella strategia che gli elettori, a suo tempo, hanno ben riconosciuto e respinto in modo netto, è da dire che, se in quel progetto di revisione il modello del ‘governo del Premier’ privo di contropoteri costituiva l’effetto della mera applicazione della legge di revisione costituzionale, oggi tale tendenza fattualmente presidenzialistica (ma di fatto fondata sul modello di ‘governo del Premier’ senza contrappesi) deve rinvenirsi nell’effetto congiunto dell’Italicum con le previsioni della revisione costituzionale.
Senza disattendere quanto avevamo assunto al momento di sottolineare come l’obiettivo della critica che si sta svolgendo non riguarda le persone quanto piuttosto le esigenze di armonia e di garanzia della ‘democrazia costituzionale’, non può non rilevarsi come l’attuale indirizzo di riforma non ha voluto ancora intraprendere formalmente la strada di una forma di governo di tipo presidenziale ma si è limitata, sostanzialmente, ad emularne le forme di legittimazione politica fondandosi sull’investitura “quasi diretta” (“come se”) della Premiership, cioè ad anticipare possibili, futuri, indirizzi di riforma costituzionale in tal senso.
Il metus tyramni suggeriva ai nostri costituenti del 1947 di essere prudenti nella scelta della forma di governo, evitando ogni possibile rischio di addensamento/concentrazione di potere in una sola persona o in uno solo potere dello Stato. Dopo 70 anni questo rimane ancora il problema della democrazia italiana.
Le nostre montagne, come ci ricordava Calamandrei (a metà degli anni ’50), grondano ancora del sangue della eroica resistenza al nazi-fascismo per ritenersi il Paese davvero libero di mandare al macero, e a cuor leggero, l’apparato di garanzie che la nostra Carta costituzionale ha voluto predisporre.
Non avere voluto frequentare altre vie idonee a garantire rappresentatività e stabilità governativa non significa che esse non fossero comunque disponibili alla decisione di revisione costituzionale. Basti per tutti richiamare in merito l’esperienza tedesca.
Ma la strategia riformistica della maggioranza di governo e del suo leader erano altre e ora tocca a tutti farsene una ragione, capirla e con tutte le risorse della ragionevolezza democratica contrastarla.

* docente dell’Università della Calabria

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