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Minacce allo Sporting Locri, la Procura chiede l'archiviazione

LOCRI Una «montatura» su cui è meglio stendere il velo di «una buona archiviazione», piuttosto che quello di «un pessimo rinvio a giudizio». Tocca al procuratore capo di Locri, Luigi D’Alessio…

Pubblicato il: 11/04/2016 – 6:39
Minacce allo Sporting Locri, la Procura chiede l'archiviazione

LOCRI Una «montatura» su cui è meglio stendere il velo di «una buona archiviazione», piuttosto che quello di «un pessimo rinvio a giudizio». Tocca al procuratore capo di Locri, Luigi D’Alessio, svelare come  dietro il caso dello Sporting Locri ci fosse solo un’abile messinscena. La squadra di calcio a 5 femminile che sotto Natale ha fatto mobilitare l’Italia contro le presunte minacce ricevute dalla ‘ndrangheta in realtà non ha mai corso alcun rischio. «Il caso sarebbe stato montato proprio da chi ha ricevuto quelle minacce» ha detto lapidario il procuratore D’Alessio, sottolineando come «il rilievo mediatico sia stato dato da chi ha denunciato le minacce prospettandole in un certo modo». Traduzione, Ferdinando Armeni, ex presidente della società, di cui si è disfatto a poche settimane da quelle presunte intimidazioni che hanno fatto indignare l’Italia, avrebbe preso in giro tutti. «Quei pizzini» che Armeni ha dichiarato di aver ritrovato sulla sua auto, esattamente in corrispondenza con il posto riservato al figlio,  per il procuratore «sono stati costruiti in casa».
Una conclusione sconsolante, ma senza appello, cui hanno condotto tre mesi di indagini serrate, che hanno via via scandagliato ed escluso tutte le piste: la criminalità organizzata, possibili rancori personali, le frequentazioni delle ragazze. Tutte concluse con un buco nell’acqua. E non per sciatteria o imperizia. Ma perché quelle minacce non erano altro che una bufala. Fin da subito, la Procura di Locri aveva escluso che ci potesse essere la ‘ndrangheta dietro quei pizzini. D’Alessio lo aveva detto chiaramente, già nei giorni in cui  i massimi vertici della Figc si presentavano in massa nel piccolo palazzetto dello sport di Locri, scortati da deputati e senatori. Lontano dai riflettori, il procuratore faceva notare come già allora non si ravvisasse elemento alcuno per trasmettere gli atti alla Dda di Reggio, competente per le indagini di ‘ndrangheta. Anche le ragazze, che poco sembravano gradire clamori e riflettori, avevano lasciato filtrare non poco scetticismo riguardo al millantato pericolo, senza nascondere invece un manifesto disprezzo nei confronti dell’ex presidente «che – dicevano a media locali e nazionali – senza pensarci due volte ci ha scaricate».
Poi i riflettori si sono spenti, Armeni si è disfatto della società, girata all’imprenditore calabro-romano Vittorio Zadotti, e sulla vicenda è calato il silenzio, rotto di tanto in tanto dal sindaco di Locri, Giovanni Calabrese, che in prima persona si è speso per assicurare un futuro alla squadra. Ma inquirenti e investigatori hanno continuato a lavorare. Nel corso dei mesi, il quadro è cambiato. Chi indagava ha capito come l’autore delle minacce andasse cercato fra quanti con gran clamore le avevano denunciate. La cosa più probabile – è emerso dalle indagini – è che dietro quelle minacce ci fosse un maldestro tentativo di tirarsi fuori da una situazione societaria spinosa, o comunque non più gradita.  Gli elementi per procedere per procurato allarme contro di Armeni però non ci sono, o comunque non sono sufficientemente solidi. «È meglio chiudere il caso con una buona archiviazione che con un pessimo rinvio a giudizio» ha detto lapidario ai microfoni del Tgr Calabria il procuratore D’Alessio. A Locri non resta che fare i conti con la propria curiosa nemesi. Perchè in una città in cui la ‘ndrangheta comanda, le ‘ndrine hanno finito per diventare un alibi. 

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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