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Il pentito contro il boss Tegano: «È stato lui a uccidere Schimizzi»

REGGIO CALABRIA «Suo zio lo sparò». Arriva dalla bocca del pentito Mariolino Gennaro un nuovo tassello di verità in grado forse di ricostruire il quadro, tuttora misterioso, della scomparsa di Paol…

Pubblicato il: 21/01/2018 – 18:59
Il pentito contro il boss Tegano: «È stato lui a uccidere Schimizzi»

REGGIO CALABRIA «Suo zio lo sparò». Arriva dalla bocca del pentito Mariolino Gennaro un nuovo tassello di verità in grado forse di ricostruire il quadro, tuttora misterioso, della scomparsa di Paolo Schimizzi. O meglio, dell’omicidio. Perché quello del rampante reggente dei Tegano– spiega Mariolino – è stato un delitto tutto maturato all’interno della litigiosa galassia degli arcoti, in un periodo delicatissimo per i clan che tuttora la compongono.

IL VECCHIO RE E LE NUOVE LEVE Era il 2008. Il boss Giovanni Tegano era già latitante, ma teneva ancora saldo in mano lo scettro del comando ed esercitava il proprio potere attraverso i generi, Michele Crudo, Carmine Polimeni, Antonio Lavilla ed Eddy Branca, destinato a ruoli meno visibili rispetto ai primi due ma altrettanto importanti, Giovanni Pellicano, «anche lui – spiega Gennaro – che è sempre un parente dei Tegano perché sposato con una nipote» e i nipoti del boss Antonio Polimeni, Angelo e Franco Benestare. All’epoca, tutti più o meno obbedienti soldatini dell’esercito del vecchio boss. Tra loro però c’era anche un parente che per carattere, carisma e contatti sfuggiva alle regole e si sottraeva alle consolidate gerarchie, Paolo Schimizzi.

PAOLO IL ROTTAMATORE «Allora ‘sto Paolo Schimizzi – dice il collaboratore al pm Stefano Musolino che lo interroga – aveva preso ormai le redini clan praticarnente. A parte che era l’unico nel territorio, in quel momento, diciamo, intelligente, non testa giovane, ma non si spaventava di niente, e voleva, stile Renzi, rottamare tutti quelli che erano le persone anziane». Rampante giovane boss, dall’atteggiamento aggressivo e dai modi sfrontati, Schimizzi, nipote acquisito del boss Tegano, aveva scalato in fretta la “scala sociale” dei clan. E della vecchia guardia non aveva alcuna paura.

NIENTE RIGUARDI PER IL GALATEO DEI CLAN Al riguardo, Gennaro ricorda un episodio che come protagonista ha «un personaggio che c’era là a San Giovannello», «un anziano, che aiutò anche la latitanza di Giovanni Tegano». Insomma, un “uomo di rispetto” secondo il galateo di ‘ndrangheta. Ma non per Schimizzi. «Paolo, a questo qua, tipo gli disse “senti bello, tu va cucchiti (lascia stare ndr) che tipo hai 90 anni, comandiamo noi”. Cose del genere, perché lui ormai aveva preso il sopravvento.

LE DUE ANIME DI ARCHI Tutte libertà che Schimizzi poteva prendersi non solo per il ruolo nel tempo acquisito. In quegli ultimi anni Duemila, il giovane reggente – hanno svelato negli anni i pentiti – era non solo il collettore cittadino delle estorsioni e uno dei principali riferimenti operativi, ma anche uno degli uomini più vicini al giovane capocrimine Giuseppe, del quale condivideva metodi, ferocia e sfrontatezza. Uno schieramento pericoloso in un periodo in cui le divisioni sulla “tattica” stavano generando tensioni fra le due anime degli arcoti, riunite da una parte attorno ai figli di don Paolino, Carmine e Giuseppe, e dall’altra attorno al fratello dello storico boss di Archi, Orazio, per matrimonio imparentato (e schierato) con i Tegano. Due schieramenti che corrispondevano a due diverse prospettive tattiche e strategiche.

DIVERGENZE STRATEGICHE «Negli anni Duemila – ha detto di recente il pentito Consolato Villani, chiamato in udienza a riferire di quella stagione di sangue progettata dalla mafie che a Reggio si è tradotta nell’omicidio dei brigadieri Fava e Garofalo e nel ferimento di altri quattro militari – Giuseppe De Stefano voleva aprire su Reggio una nuova strategia della tensione». Fino a dove volesse o sia riuscito ad arrivare il giovane De Stefano non è dato sapere. Quel che è certo è che quegli anni – segnati dall’occupazione militare delle municipalizzate, dalle grandi speculazioni edilizie e forse da sempre più spregiudicate scorribande politiche dentro e fuori regione – non sono stati per nulla sereni per gli arcoti. Grandi affari scatenano grandi appetiti e grandi ambizioni. E si finisce per pestarsi i piedi.

ESUBERANZA FATALE «Come me l’hanno raccontata a me – spiega il pentito Gennaro – era che praticamente Paolo Schimizzi aveva preso ‘ste redini, lo zio non voleva mollare le redini, aveva litigato con questo Michele Crudo che invece il suocero Giovanni Tegano voleva mandare avanti o comunque si vedeva che lo voleva controllare più facilmente. Paolo non lo poteva controllare, ve l’ho detto che stava rottamando tutti in quel periodo». E con lui, tutti i giovani rampanti che avevano fatto quadrato attorno al capocrimine Peppe De Stefano, Paolo Rosario Caponera, da poco diventato De Stefano, il fratello Giovanni, gli Audino, e con i loro metodi stavano facendo breccia anche fra i nipoti dei Tegano e la vecchia guardia degli arcoti.

LA ‘NDRANGHETA DI PEPPE DE STEFANO «Una ‘ndrangheta moderna, più politica, alla Peppe De Stefano» l’ha definita qualche tempo fa il pentito Roberto Moio, sentito in aula al processo Meta. «Peppe De Stefano era un tipo alla moda. Frequentava locali, vestiva bene. E riusciva a raccogliere intorno a sé persone pulite della “Reggio bene”» ha raccontato il collaboratore di giustizia, testimone diretto di quegli anni in cui il giovane capocrimine instaurava buoni e proficui rapporti con tutti, a Reggio Calabria. «Aveva un sacco di amici: medici, appaltatori, imprenditori, professionisti, figli di politici e politici stessi». È da questo momento – secondo Moio – che «la ‘ndrangheta inizia a conoscere i palazzi del Comune, che un domani sarebbero serviti per il business».

TRASVERSALE AI CLAN Un nuovo corso che non riguardava solo la cosca De Stefano. Tutte le giovani leve «Paolo Rosario Caponera, Paolo Schimizzi, Mario Audino e Mimmo Condello detto “Gingomma”» – ha detto chiaramente Moio in aula – si erano schierate con Peppe De Stefano. I loro erano all’epoca i nomi e i volti della nuova stagione criminale della mafia «camuffabile», che non dà troppo valore alle vecchie cariche e agli antichi “gradi” criminali, ma pensa più agli affari, meglio ancora se “puliti” e condotti a braccetto con la politica. Per il vecchio boss Tegano, necessariamente defilato causa latitanza, erano tutti una minaccia. E di quella paura, Schimizzi sembra essere stato uno dei primi a pagare il conto.

IL MOVENTE «C’era stato un attrito, un litigio, addirittura forse se non ricorso male, Paolo aveva picchiato Michele Crudo il genero» racconta Gennaro, che della sorte di Schimizzi ha saputo da personaggi di peso della ‘ndrangheta di Archi come Paolo Tripodi, Donatello Canzonieri e Carmelo Vazzana, uomini ombra di Franco Benestare. «Paolo (Tripodi ndr) fu il primo, mi ricordo, alla prima volta che ne parlai, fu il primo che pensò “è una cosa fatta in casa”». Ipotesi poi confermata dalle informazioni filtrate nei mesi successivi. «In un incontro dove lui andò a trovare lo zio con ‘sto Giovanni Pellicano e sto Michele Crudo, praticamente ci fu un litigio, e come dicono, suo zio lo sparò».

COSA DI FAMIGLIA Gennaro non conosce i dettagli con certezza. «Dice che forse Paolo ha ingiuriato lo zio, ci dissi (gli ha detto ndr) qualcosa.. come aveva detto a quello di San Giovannello “va cucchiti che hai 90 anni” e dice che lo zio prese la pistola e poi non si sa… dove lo seppellirono». Tutte informazioni – racconta – che lui ha avuto da Tripodi.  Canzonieri e Vazzana – spiega Gennaro – non sono mai entrati così in dettaglio, «del litigio durante quella serata e lo zio Giovanni che prese la pistola, questo dettaglio, no, che però – afferma il pentito – era stata una cosa fatta dallo zio Giovanni con Pellicano e Crudo si!”. E le stesse informazioni erano arrivate da Antonio Utano, cognato di Schimizzi, che tuttavia aveva aggiunto “Mia sorella Caterina (Utano, ex moglie di Schimizzi) sa».  Non è dato sape
re però se abbia mai condiviso eventuali informazioni con i magistrati.

IL RACCONTO DI MOIO Chi invece in passato ha parlato – e in più di un’occasione – dell’omicidio Schimizzi è stato un altro collaboratore di casa Tegano, Roberto Moio, anche lui nipote del boss Giovanni. All’epoca della sua scomparsa, ha spiegato il pentito al processo Archi Astrea, Schimizzi era responsabile della gestione illecita di Leonia e Multiservizi, affiancato da Paolo Rosario Caponera, «che faceva le veci di Peppe De Stefano». Era stato Giovanni Tegano a dare questo ruolo a Schimizzi: «Lui riceveva le somme e poi le distribuiva». E proprio la gestione delle municipalizzate sarebbe stata la causa delle frizioni interne al clan che avrebbero portato alla sua eliminazione.

IL NODO MUNICIPALIZZATE «Ho capito che si trattava di una cosa familiare – dice Moio al riguardo –. Lui aveva l’incarico di mastro di giornata e sottraeva somme che spettavano a Giovanni Tegano». In un altro procedimento invece, Moio è andato ancor più in dettaglio. «Schimizzi – ha spiegato – aveva avuto un contrasto con Michele Crudo ma è scomparso per mano di suo zio Giovanni Tegano». Nelle sue dichiarazioni pubbliche Moio non è andato oltre, la cronaca però racconta che dopo la scomparsa del giovane rampollo degli arcoti sarebbero stati Michele Crudo e Carmine Polimeni a “occuparsi” delle municipalizzate.

«GLIELO DICO IO» Tra i Tegano si sa come siano andate le cose anche se nessuno lo ha mai ufficialmente dichiarato. Anche se, almeno una volta, Michele Crudo ha minacciato di farlo. «Se mi accollano il fatto di Paolo – ha detto alla moglie, intercettato in carcere – gli spiego io come sono andate le cose». Ma alle sue minacce non ha mai dato seguito. La sorte di Paolo Schimizzi rimane allo stato un mistero. Ma il quadro agli inquirenti è chiaro. L’improvvisa sparizione del rampante reggente sembra essere solo uno dei tanti grani del rosario del conflitto interno fra le due anime degli arcoti.

L’ANNUS HORRIBILIS DI ARCHI In quel periodo non sono mancati né il sangue – l’omicidio Audino, la scomparsa per lupara bianca di Schimizzi – né i colpi bassi, come l’arresto di Orazio De Stefano, avvenuto grazie ai precisi suggerimenti forniti dal nipote, Peppe. Una versione che il capocrimine di Reggio ha sempre smentito, intervenendo con forza anche in pubblica udienza, ma che più di un pentito ha confermato.

AVVENIMENTI A CATENA A ricostruire in dettaglio il clima del 2008 – anno chiave nelle dinamiche criminali cittadine, segnate o forse agitate dalla cattura di Pasquale Condello – è stato il colonnello Valerio Giardina, ascoltato come testimone al processo Meta. «La scomparsa di Schimizzi e l’omicidio di Audino – dice Giardina – sono legati dall’intraprendenza di questi luogotenenti e dai legami che entrambi avevano con i De Stefano. Senza di loro si sono creati dei rapporti più funzionali alla nuova struttura».

LA PAURA DI UNA NUOVA GUERRA E forse non casualmente due mesi e mezzo dopo – spiega il colonnello – verrà arrestato Giuseppe De Stefano: «In quel periodo – dice Giardina – fonti confidenziali accreditavano forti contrasti all’interno della famiglia De Stefano fra Orazio De Stefano e Giorgio De Stefano. All’interno della famiglia De Stefano abbiamo avuto l’impressione che non tutti fossero contenti del ruolo assunto da Peppe e soprattutto della vicinanza con Pasquale Condello».

IL PREZZO DELLA PACE Un’interpretazione che le dichiarazioni di Gennaro non fanno che confermare. All’epoca dell’omicidio Schimizzi, racconta, «tutti incominciarono a domandarsi, quindi scambio di informazioni, ambasciate, cose, io però non frequentando là dentro sentivo queste cose perché frequentavo Canzonieri, a mio compare Carmelo ogni tanto lo vedevo insomma, una chiacchierata pure con Alberto Rito me la feci per sapere “ma com’è la situazione? Scoppia qualche guerra? Che è successo?” e io mi domandavo “ma se scoppia qualche guerra io che faccio?». La guerra non è scoppiata. Ma adesso tocca ad inquirenti ed investigatori chi e perché abbia pagato il prezzo della pace.

 

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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