REGGIO CALABRIA Matteo Salvini ha scelto il 14 febbraio, giorno ormai appaltato alla festa degli innamorati, per visitare Reggio Calabria, dove attorno alle 20,30 è atteso in un cine-teatro del centro città, blindato per l’occasione. Una data apparentemente incongrua per il leader di un partito che si è costruito sulla retorica anti-terroni e ha arringato le (prime) folle al grido “Padania libera” dal Sud parassita. In realtà, però, il lavoro di più Procure antimafia ha documentato forti, storici, consolidati legami a Reggio Calabria per il Carroccio. Legami con la Reggio Calabria peggiore, che nell’élite dei clan di Archi ha e sempre ha avuto il proprio baricentro.
GLI INCIAMPI Dimenticate le velleità di secessione, Salvini da tempo si presenta come uomo d’ordine, unico in grado di salvare l’Italia (e non solo la Padania) da quelle che definisce «invasioni», origine – a suo dire – di reati e illegalità. Ma proprio questo in casa Lega rischia di essere argomento sensibile. Perché proprio la Lega, a Reggio Calabria, è inciampata in un’indagine che chiama in causa direttamente la direzione strategica della ‘ndrangheta reggina e i suoi “riservati”.
IL TESORETTO ILLEGALE DELLA LEGA Nell’aprile 2012 la Lega (all’epoca ancora Lega Nord) è finita al centro di un’inchiesta coordinata dalle Dda di Reggio Calabria, Milano e Napoli, che avrebbe svelato come il Carroccio abbia per anni utilizzato i canali scavati dal clan De Stefano – e da uomini a loro molto vicini – per accumulare all’estero un tesoretto in titoli e diamanti. A gestire le casse del Carroccio all’epoca era Francesco Belsito, avvocato mai laureato, chiamato non solo a fare da sottosegretario all’ex ministro leghista Roberto Calderoli, ma anche a rappresentare gli interessi del Carroccio in Finmeccanica.
IL TESORIERE INFEDELE Pur privo di titoli e competenze, Belsito – che oggi lavora dietro il bancone di un bar che ostenta simpatie mussoliniane – sotto le verdi bandiere della Lega ha costruito per lungo tempo la propria fortuna. Vibonese d’origine, politicamente l’ex tesoriere del Carroccio è cresciuto a Genova all’ombra della Dc, per poi salire in corsa sul carro dell’ex tesoriere leghista Maurizio Balocchi. E insieme a lui – dicono i pentiti – si sarebbe convertito in uno dei principali interlocutori finanziari delle ‘ndrine al Nord.
IN ODOR DI CLAN A metterlo a verbale è stato il collaboratore di giustizia Francesco Oliverio, ex capolocale di Belvedere Spinello poi spedito al Nord a consolidare assetti e affari. «Parlando con il compare di Reggio – si legge nella trascrizione di uno dei suoi interrogatori –venni a sapere che i De Stefano operavano tranquillamente in Liguria riciclando soldi e facendo investimenti. Nel discorso, quale contatto, il compare aveva accennato all’ex tesoriere della Lega Belsito, nonché del precedente tesoriere dello stesso partito, da tempo deceduto, il quale oltre a favorirli nel riciclaggio, gli custodiva anche le armi».
AMICIZIE PERICOLOSE Legami che in fondo non dovrebbero più di tanto stupire. Socio storico di Belsito a Genova era “l’ammiraglio” Romolo Girardelli, considerato dagli inquirenti uomo del clan De Stefano nel capoluogo ligure, anche perché beccato a mettere in piedi una serie di giochi di prestigio finanziari necessari per sovvenzionare la latitanza di Roberto Fazzalari, personaggio di peso della ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro. Un’inchiesta partita da Genova ma che si è estesa anche in Francia, e collega Girardelli a personaggi come Vittorio Canale, uomo del clan De Stefano in Costa Azzurra, e Paolo Martino, cugino prediletto dello storico boss Paolino De Stefano e da diversi decenni espressione dell’èlite delle ‘ndrine di Archi al Nord. Un nome, quest’ultimo, che ha finito per essere noto anche in ambienti che con la Lega hanno avuto direttamente a che fare.
IL MINISTRO DEI DE STEFANO Auto di lusso e abbigliamento ricercato, per anni Paolo Martino nella “sua” Milano si è mosso senza incontrare ostacoli di sorta, amministrando da perfetto “ministro delle Finanze” dei clan affari, contatti e relazioni, incluso con personaggi come Lele Mora, reclutato grazie ai soldi messi a disposizione dal Comune di Reggio Calabria, per un paio di passeggiate di vip (o presunti tali) in riva allo Stretto. Del resto, alla natia Reggio e i suoi affari, criminali e non, Martino è rimasto sempre legato. E proprio per questo forse non a caso per lungo tempo gli investigatori lo hanno monitorato mentre entrava e usciva dallo studio Mgim. Ed è proprio qui che i suoi cammini si sono incrociati con quelli della Lega.
CROCEVIA MGIM Ufficio milanese ma con cuore calabrese, gestito da Lino Guaglianone, ex tesoriere dei Nar, poi riciclatosi in An, divenuto collezionista di incarichi di peso nelle più importanti partecipate di Milano come Ferrovie Nord e Fiera Milano Congressi, la Mgim finisce al centro dell’indagine della Dda di Reggio Calabria che ha messo a soqquadro la Lega e spazzato via il “cerchio magico” di Bossi. È lì che lavorava Brunello Mafrici, sedicente avvocato mai laureato, originario di Melito Porto Salvo, consigliato da Girardelli a Belsito come “consulente” prima come collaboratore al ministero quindi per gestire i conti della Lega.
CHIAMA MAFRICI «Mi ha detto – ha raccontato Belsito nel corso del suo interrogatorio con l’attuale procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo – è un bravo avvocato, nel suo studio hanno tantissime specializzazioni. (..) Qualsiasi cosa che hai bisogno… oltre ai tuoi professionisti, che già hai, puoi avvalerti di questo studio, che a titolo gratuito ti può indubbiamente aiutare». È questo l’ambiente in cui per i magistrati sarebbero stati gestiti i fondi neri della Lega, in parte trasformati in diamanti circolati fra vari paradisi fiscali, e costati al Carroccio una serie di processi – nei quali Salvini e i suoi non si sono costituiti parte civile contro gli ex dirigenti – dalle pesanti conseguenze politiche ed economiche. La stella di Umberto Bossi e dei suoi si è offuscata fino a spegnersi, per poi essere spazzata via dalle ramazze di Roberto Maroni, un tempo erede del Senatùr, oggi parcheggiato in Regione Lombardia (Maroni ha scelto di non ricadidarsi a governatore, ndr) dall’esuberanza di Salvini e dei suoi. Economicamente, quei traffici torbidi hanno mandato quasi in bancarotta la Lega, colpita da confische milionarie. Ma forse non solo.
FASCICOLO APERTO? Se Genova e Milano hanno chiuso le indagini, portato i responsabili a processo, strappando anche significative condanne per reati che vanno dalla truffa al riciclaggio, sul fascicolo reggino di Breakfast si attendono ancora sviluppi. E la principale ipotesi accusatoria, emersa quando sono stati contestati i primi avvisi di garanzia, è molto più pesante. Un anno dopo la prima perquisizione, per ordine dell’allora pm Giuseppe Lombardo, gli uomini della Dia tornano alla Mgim, società al centro di tutti i grandi affari in seguito finiti in mano alla ‘ndrangheta, come la costituzione delle municipalizzate reggine.
INDAGATI Gli agenti hanno in mano non solo un nuovo decreto di perquisizione e sequestro ma anche una serie di avvisi di garanzia per Guaglianone, indagato per violazione della legge Anselmi sulle società segrete, aggravata dall’aver favorito la ‘ndrangheta, Mafrici, Girardelli, un altro socio della Mgim, Giorgio Laurendi, più una serie di imprenditori di Reggio Calabria, fra cui Michelangelo Tibaldi, direttamente interessato con le sue società all’affare delle società miste, e un ex consigliere comunale della città calabrese dello Stretto, Giuseppe Sergi, vicinissimo all’ex governatore Giuseppe Scopelliti, condannato anche in appello per aver taroccato il bilancio del Comune di Reggio Calabria quando ne era sin
daco, chiamato in causa da diversi pentiti come “candidato di riferimento dei clan” e oggi proconsole di Salvini.
ASSOCIAZIONE SEGRETA LEGATA AI CLAN L’accusa, all’epoca contestata agli indagati, è pesante. Per la Dda di Reggio Calabria, farebbero tutti parte di una «struttura criminale (connotata da segretezza) a carattere permanente», che nel tempo avrebbe costituito e messo in opera «schemi operativi finalizzati ad occultare la reale natura delle attività svolte dovendosi ritenere che anche attraverso molteplici operazioni di consulenza finanziaria e commerciale illecita (in quanto finalizzata a illegale arricchimento), riguardante operazioni imprenditoriali relative al contesto territoriale reggino riferibili all’attività professionale svolta dalla Mgim con studio in via Durini a Milano, si siano poste in essere attività dirette ad agevolare operazioni di riciclaggio o reimpiego di ingenti capitali di provenienza delittuosa». Traduzione, la Mgim per i magistrati sarebbe servita a riciclare e investire il denaro dei clan. Ma non solo.
OMBRE SULLA LEGA Nel corso delle indagini preliminari – si leggeva nelle carte – sono emersi infatti «continui contatti e collegamenti fra i soggetti investigati e ambienti politici e istituzionali, che hanno consentito a più di un indagato – ben collegato alla cosca De Stefano – di ricoprire incarichi in tali ambiti operativi». Nel mondo politico e delle istituzioni – secondo gli inquirenti – si erano installati uomini del clan De Stefano, sui cui nomi vige ancora il più stretto riserbo, ma specificava – «già raggiunti dalle indagini in corso e da considerare diversi e ulteriori rispetto a quelli riferibili ai soggetti facenti parte del sodalizio oggetto di contestazione, a loro volta risultati collegati, al fine di sviluppare i loro programmi illeciti, alle attività politico-finanziarie della Lega Nord». Per i magistrati, dunque, non solo Francesco Belsito sarebbe stato il materiale esecutore di «operazioni politiche ed economiche che hanno consentito alle persone sottoposte a indagini di divenire il terminale di un complesso sistema criminale di natura occulta», ma ci sarebbero uomini vicini o legati al Carroccio che con i referenti dei clan hanno lavorato gomito a gomito. E forse – lascia intendere quel capo di imputazione – non solo in ambito economico e finanziario, ma soprattutto politico e istituzionale.
INTRECCIO INVESTIGATIVO Dopo quella perquisizione alla Mgim, non sono state rese note ulteriori attività su quel troncone di indagine. Ma su uno dei rivoli da esso generati sì. Si tratta del filone, già finito davanti ai giudici, che di fronte al Tribunale collegiale di Reggio Calabria ha spedito in qualità di imputato l’ex ministro Claudio Scajola, accusato di aver aiutato l’ex deputato di Forza Italia Amedeo Matacena, considerato fondamentale referente politico e imprenditoriale dei clan reggini, a sfuggire ad una condanna e ad occultare il suo immenso patrimonio. L’ipotesi investigativa al centro del fascicolo principale però, secondo fonti investigative, non sarebbe stata abbandonata. Anche perché più di uno degli elementi emersi chiama in causa quel progetto eversivo – oggi al centro dell’inchiesta ‘Ndrangheta stragista – che galassia dell’eversione nera, massoneria piduista, ambienti dei servizi e mafie hanno portato avanti con l’obiettivo di mandare al potere un governo amico.
L’EREDITA’ DI MIGLIO Quanto meno in una prima fase, quel progetto è passato per il sogno federalista mirato a «dare alle mafie una nazione». Erano i primissimi anni Novanta. Esattamente lo stesso periodo in cui l’ideologo e padre fondatore della Lega, Gianfranco Miglio, nel teorizzare la divisione dell’Italia in tre cantoni, confidava al Giornale: «Io sono per il mantenimento anche della mafia e della ‘ndrangheta. Il Sud deve darsi uno statuto poggiante sulla personalità del comando. Che cos’è la mafia? Potere personale, spinto fino al delitto. Io non voglio ridurre il Meridione al modello europeo, sarebbe un’assurdità. C’è anche un clientelismo buono che determina crescita economica. Insomma, bisogna partire dal concetto che alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate».
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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