di Antonio Cantisani
CATANZARO “Bicchiere mezzo pieno” o “mezzo vuoto”? Per Tonino Belcastro, direttore generale del Dipartimento regionale Tutela della Salute, il fatto che la sanità calabrese, dopo tanto penare, abbia superato la soglia di adempienza dei Lea (livelli essenziali di assistenza) anche se resta ultima nella performance complessiva configura un “bicchiere mezzo pieno”. Anche perché «nessun’altra Regione ha fatto un balzo in avanti lungo come quello della Calabria», rivendica Belcastro con un pizzico di orgoglio. E anche sul piano della tenuta contabile – l’altro aspetto decisivo per una futura fuoriuscita dal piano di rientro – per il dg regionale le prospettive sono piuttosto confortanti.
Dottore Belcastro, la sanità calabrese ha superato la soglia di sufficienza dei livelli essenziali di assistenza, come del resto lei aveva previsto, passando da 136 a 162 punti, ma è sempre l’ultima in Italia: forse questo dato non è “vera gloria”…
«Qualcuno ha scritto che abbiamo fatto “un piccolo grande passo”, penso che sia proprio così. Siamo per fortuna sopra la soglia, l’essere ultimi significa probabilmente che tutto il sistema sanitario sta andando meglio. Ora, è vero che siamo fanalino di coda, ma oltre ad aver superato la soglia siamo virtualmente adempienti rispetto all’erogazione dei Lea. E poi ci sono i due aspetti più importanti: il primo è che la Calabria, pur commissariata, è la regione che ha fatto lo sforzo maggiore e quindi ha fatto la performance aumentando di ben 26 punti e nessun’altra regione ha mai fatto un balzo in avanti così, e il secondo è che questo crea i presupposti per migliorare nel 2019, i cui risultati li avremo nel 2020. E con il nuovo sistema di garanzia e con i nuovi indicatori saremo nel penultimo e non nell’ultimo gruppo di Regioni. Abbiamo soprattutto dimostrato che se ci si impegna, malgrado le poche risorse del Dipartimento, si raggiungono gli obiettivi, e il primo che ci eravamo prefissati un anno fa l’abbiamo francamente centrato in pieno: merito anche di un gruppo di ragazzi – informatici, statistici – che sono andati in giro per le aziende e per le strutture private. Il dato reale non è che non erogavamo prestazioni ma che non riuscivamo a trasmetterle».
Però anche il livello centrale è stato parecchio sordo.
«Noi abbiamo fatto anche un altro lavoro verso i ministeri, quello del recupero di credibilità. Forse per troppi anni abbiamo raccontato una Calabria frammentata, nella quale ognuno – la Regione, il Dipartimento, le aziende, le strutture sanitarie private – andava per conto suo. Invece adesso abbiamo dato una dimostrazione di unitarietà: a esempio, abbiamo detto anzitutto al Dipartimento di non considerare le aziende e le strutture private come avversari ma di coinvolgerle perché fanno parte di uno stesso sistema. Faccio un esempio: un ospedale e non mandava una scheda, “Emur”, in cui vengono inseriti i dati del pronto soccorso, e non mandando questa scheda al ministero questo ospedale risultata sprovvisto di pronto soccorso, quindi siamo andati in questo ospedale e abbiamo chiesto di inserire i dati. In buona sostanza, abbiamo recuperato i dati che mancavano e che ci facevano risultare inadempienti, quindi abbiamo mandato i flussi completi e così abbiamo recuperato i punti necessari per superare la soglia Lea. Ripeto: i servizi erano stati erogati, il problema è che ci mancava la cultura del dato, ma adesso abbiamo colmato questo gap».
Nel discorso dell’unitarietà rientra anche la struttura commissariale?
«Beh, sulla vicenda dei Lea non ha partecipato perché è un fatto del Dipartimento, ma in generale comunque c’è un clima di collaborazione».
Per uscire dal Piano di rientro i Lea devono essere sopra la soglia e conti devono essere a posto: nel primo caso bene ma nel secondo però sembra ancora di no.
«Certo, dal punto di vista dei Lea ci siamo, ora dobbiamo far quadrare i conti. Ma anche qui ho letto cose non coerenti su alcuni organi di informazione. L’ultimo tavolo Adduce, del 21 novembre, non è andato affatto male. Sulla base della proiezione fornita dai nostri uffici e dall’advisor Kpmg la tendenza sarebbe di -143 milioni, ma nel frattempo sul 2019 abbiamo incassato delle somme importanti, come il payback farmaceutico per 47 milioni più altri che abbiamo recuperato come i 17 milioni del progetto sulla riduzione delle liste di attesa e l’unificazione dei Cup, che, come ricorderà, è un progetto del Dipartimento, rientrato tra le otto regioni finanziate dal ministero. Bene, con queste somme scendiamo sotto i 100 milioni, e 100 milioni sono le nostre coperture con la fiscalità ordinaria. Se si consolidasse questo dato, chiuderemmo il 2019 con un disavanzo che è entro le coperture, come dicono i tecnici, e quindi non ci sarebbe l’aumento delle extra-aliquote per calabresi: ho letto, su questo, ricostruzioni parziali, anche giornalistiche, del verbale del Tavolo del 21 novembre, perché nel frattempo sono cambiate di molto le cose con l’incasso di queste ulteriori somme, e anche di altre rimesse».
Il tutto in un contesto difficile con questo “Decreto Calabria” che ha peggiorato la situazione: è così?
«Guardi, è stato oggettivamente un “annus horribilis”, perché il decreto doveva gestire l’emergenza e invece ha finito per creare una cronicità e una precarietà lunghissima. Pensiamo alla vicenda dei reggenti: il Dipartimento deve programmare, le aziende devono gestire, ma non c’era nessuno nelle aziende che potesse gestire la nostra programmazione perché il reggente si sentiva sempre provvisorio. Ora finalmente si insediano questi nuovi commissari e ora speriamo che ci sia un’interlocuzione che consenta a noi di programmare e alle aziende di gestire».
Resta però questo senso di colonizzazione della nostra sanità, come la vicenda, resa nota dal Corriere della Calabria, dei “bonus” proposti da strutture sanitarie del Nord a operatori calabresi per portare fuori Calabria il maggior numero di pazienti.
«Che nella sanità calabrese ci siano grandi problemi non possiamo nasconderlo, ma la soluzione non è che le aziende e le strutture sanitarie pubbliche e private del Nord possano pensare di prendere la nostra mobilità per sollevare i propri bilanci, perché poi di questo si tratta. C’è poi un altro aspetto del “Decreto Calabria” che non va».
Cioè?
«Quello legato al dissesto, a esempio: io avrei visto di più una distinzione tra la gestione corrente e una gestione liquidatoria fissata al 31 dicembre 2018, assegnato a un commissario che gestisce tutto il pregresso lasciando ai nuovi commissari la gestione del corrente in modo da poter programmare per l’anno in corso senza avere la zavorra del dissesto. Il dissesto infatti non serve a nessuno, già il suo annuncio ha creato problemi nell’economia locale».
Tiriamo un po’ le somme: luci e ombre a inizio 2019. Le luci.
«Secondo me l’aspetto più positivo è che si è un po’ invertita una tendenza. Abbiamo anche riavviato alcune cose ferme da tempo, come il fascicolo sanitario, lo screening neonatale esteso, la piattaforma unica di accesso ai servizi sanitari “Ecosistema digitale Calabria sanità”, la risalita dei Lea sopra la soglia, ovviamente. Poi abbiamo una conoscenza, una contezza del bilancio, che prima era aleatorio e adesso può tornare entro le coperture. Abbiamo contribuito al nuovo Programma operativo 2019-2021, e poi cito i piani di efficientamento delle quattro aziende, l’azzeramento del pregresso in merito alle pratiche dell’accreditamento delle strutture private, abbiamo aderito all’anticipazione di liquidità con Cassa Depositi e prestiti per 120 milioni, che abbiamo restituito con un tasso dello 0,60% e questo ha permesso alle aziende di ridurre i tempi di pagamento, abbiamo avviato le procedure per la rinegoziazione del mutuo trentennale a copertura del disavanzo».
Ma qualcosa, tanto, anzi tantissimo ancora non va però.
«Il problema, secondo me, è la narrazione che si fa della sanità calabrese, come del resto della Calabria in generale. Ci sono eccellenze, forse non concentrare ma distribuite a macchia di leopardo e non messe in rete. Ecco, ci manca il gioco di squadra. Io non mi sognerei mai di mandare una persona a curarsi fuori dalla Calabria perché in Calabria ci si può curare quasi per tutto, ma purtroppo forse ancora si guarda troppo all’autonomia professionale e poco al gioco di squadra, e questo non consente di mettere al centro il paziente. Quindi, l’auspicio è tornare a giocare di squadra e a fare interscambio tra i professionisti, perché il fuoriclasse non serve nemmeno». (redazione@corrierecal.it)
x
x