REGGIO CALABRIA «Dire che la ‘ndrangheta non fa politica è l’affermazione degli stolti». E ancora, citando Brecht: «Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi conoscendola la chiama bugia è un delinquente».
Riprende la requisitoria del pubblico ministero Giuseppe Lombardo nel processo “Gotha” all’Aula Bunker di Reggio Calabria.
«L’intervento odierno completa l’introduzione del 30 aprile», quando erano stati introdotti i temi principali dell’impianto accusatorio sviluppato nelle udienze che si protrarranno fino al prossimo 26 maggio, quando verranno avanzate le richieste di condanna dal procuratore capo, Giovanni Bombardieri, al collegio presieduto dal giudice Silvia Capone.
Elementi principali della trattazione del pm sono le «figure di raccordo» Paolo Romeo e Giorgio De Stefano, imputati nel maxi processo alla “cupola” reggina, mentre «l’uomo giusto al momento giusto», per Lombardo, era tanto l’ex sottosegretario Alberto Sarra quanto l’ex senatore Caridi e una serie di altre figure alle quali è dedicata l’odierna trattazione
Lombardo parte da una pronuncia del 1968, riferita all’omicidio di Pietro Casile del 1953, dove la politica, nel binomio che la collega alla mafia, viene descritta come “ben lontana dalla nobile arte del governare”. «Temi non nuovi – dice il pm – letti in maniera diversa rispetto al passato, in maniera non del tutto originale».
«Oggi ci raccontiamo di nuovo che per la prima volta quell’infame binomio viene portato all’attenzione del tribunale di Reggio come un fenomeno esclusivamente mafioso, senza fare ricorso a una serie di artifizi verbali che in qualche modo tentano di allontanare non ciò che è compenetrato, ma che è parte integrante di un unico sistema criminale».
A supporto di questa tesi, il pubblico ministero richiama un’intercettazione del 26 novembre 2003, dove l’avvocato ed ex parlamentare Psdi, Paolo Romeo sottolinea come «i De Stefano non volevano fare politica. Io ogni volta che sono andato gli ho detto, così facciamo».
«Romeo – dice Lombardo – sa perfettamente che i De Stefano non possono fare politica diretta, ma devono farla, seguendo le indicazioni che lui, accanto a Giorgio De Stefano, è in grado di dare. Perché il nome dei De Stefano va speso ma non va speso. Ecco l’ulteriore ruolo della componente riservata della ‘ndrangheta».
Il filo conduttore che lega i vari passaggi emersi in “Gotha”, secondo l’accusa, fa emergere una certezza: «I De Stefano la politica l’hanno fatta ed anche molto bene. Non condizionando la città di Reggio Calabria, ma consentendo alla ‘ndrangheta di divenire padrona assoluta di tutte le dinamiche pubbliche che caratterizzano questa comunità». Ci sarebbe dunque una contaminazione criminosa strutturale «che supera l’infiltrazione, va oltre il singolo affare e diventa sistema, trasforma la ‘ndrangheta da interlocutore dell’istituzione in istituzione vera e propria».
«Il fenomeno più grave che questa terra vive da sempre non è quello mafioso, ma l’indotto mafioso». L’accusa richiama un’ulteriore intercettazione, risalente ad aprile 2014, che vede protagonista sempre Paolo Romeo, che «spiega qual è il suo ruolo all’interno dell’associazione».
Ne proviene che «in questa terra ci sono tante persone che non sono ‘ndrangheta ma vivono di ‘ndrangheta» e chi, come potrebbe essere Romeo, genera e favorisce questo percorso «non è un soggetto esterno, perché nessuno prende ordini per anni da soggetti esterni».
«L’esperienza politica di Romeo e De Stefano serve come base di partenza in una serie di “meccaniche divine” senza le quali non ci sarebbe stato quel perfetto allineamento».
Le decisioni passano per quella che è una sorta di centrale operativa, il circolo “Posidonia”. Secondo l’accusa «non è un’associazione con fini sociali o comunque culturali, ma era la sede di una loggia coperta interna alla ‘ndrangheta che creava una fitta rete di relazioni che servivano per interagire con determinati ambiti, non per condizionarli, ma per fagocitarli».
Una volta realizzato quel «perfetto allineamento» serve disporre le pedine che possano alimentare il sistema. «Chi erano i soggetti giusti al momento giusto?», si chiede il pubblico ministero.
La risposta tende su un soggetto «che ha un nome e un cognome e si chiama Alberto Sarra», ex sottosegretario regionale. «Non si chiama Giuseppe Scopelliti, che non è imputato in questo processo. Bisognava far ricorso a un soggetto che avesse determinate caratteristiche». Sarra sarebbe stato «in grado di agire direttamente coi maggiori casati di ‘ndrangheta del territorio», che «conosce bene le logiche mafiose perché lui stesso ha spiegato (nel corso del dibattimento, ndr) quanto profonda sia la sua consapevolezza politica».
Dagli Alvaro ai Condello, sono diversi i collegamenti richiamati tra il politico e le “famiglie” della provincia. Alcuni, com’è il caso del boss Pasquale Condello, avvicinati mediante l’attività professionale poi trascesa in quanto «non è scriminato il difensore nel momento in cui, nel rapporto col cliente, va molto oltre il suo mandato».
Sarra, secondo quanto riferito dal pentito Fiume, «non ha un ruolo qualsiasi». Ma il pm parla poi di una “Triade”: «De Stefano è Scopelliti, Condello è Sarra, Caridi è molto vicino ai Tegano. Quando risulta chiaro che si voterà nella primavera del 2002 e risulta evidente che il potere della ‘ndrangheta territoriale è tornato nelle mani giuste, quelle di Giuseppe De Stefano, tutto si avvia. Sarra e Scopelliti, diretti proprio da Romeo, concorrono e diventano i protagonisti di quel progetto politico-criminale che abbiamo ricostruito nel dibattimento».
Nel 2004, «c’è un progetto ambiziosissimo che ruota intorno alle società miste». È il preludio del “Decreto Reggio”, che presuppone un meccanismo «che va gestito al meglio».
In questo contesto, vanno letti i movimenti intorno a Giuseppe Scopelliti, ex sindaco di Reggio Calabria. «Scopelliti – dice il pm – comincia a capire che il disegno è più grande di lui. Romeo lo sapeva che sarebbe arrivato il momento in cui Scopelliti si sentirà sindaco e si dimenticherà chi lo ha messo lì. E questo avviene nel 2004, ma Scopelliti non può essere abbandonato. La sua esperienza amministrativa non può finire. Deve subire soltanto il segnale che quel sistema gli manda e deve capire che quel sistema è in grado di recuperarlo e di collocarlo. La crisi dell’estate 2004, finisce con la pagliacciata dell’esplosivo al Comune. Quella è un’emerita pagliacciata che serve a creare Scopelliti sindaco antimafia per mandare a Scopelliti un insieme di messaggi: “Tu finisci quando lo diciamo noi e tu diventi il numero uno se noi decidiamo in quel senso. Scopelliti torna a essere il soggetto incaricato, torna a essere e a fare il cane di mandria. Scopelliti capisce in quel momento che lui non è padrone di niente».
«Caridi è un affiliato dei De Stefano». Il pubblico ministero riprende in questo caso le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Moio sostenendo come l’ex senatore non viene definito «come soggetto che ha fornito un sostegno occasionale, ma come vero e proprio intraneo al circuito ‘ndranghetista reggino».
Lombardo inserisce Caridi nella direzione strategica della ‘ndrangheta: «Siamo ampiamente dentro il concetto di partecipazione secondo quelli che sono i canoni tipici della sentenza Mannino in relazione non all’ipotesi di cui al primo comma del 416 bis ma in relazione al secondo comma. Per tutti. Ci sono capi dirigenti, ci sono organizzatori, non ci sono partecipi in una direzione strategica di una componente riservata che è una componente apicale. Sono tutti capi con ruoli diversi. Così si struttura una componente di vertice. Non c’è il partecipe della componente di vertice».
Anche lui, come Sarra, nella ricostruzione dell’accusa è «uomo giusto al momento giusto». Tra le due figure ricorrono diversi parallelismi, ma anche differenze: «Paolo Romeo – dice il pm – comprende che Caridi è capace di fare politica, gestire l’elettorato e soprattutto sa stare al suo posto». Contrariamente alle caratteristiche di Sarra, «comunque indispensabile in una collocazione diversa, che tende spesso a porre comportamenti non in linea con le indicazioni ricevute».
Il collante tra i due sarebbe stato invece «Francesco Chirico, referente di Caridi nella famiglia De Stefano». Dalle dichiarazioni dei collaboratori viene ricostruita l’esistenza di un «comitato d’affari che lega le cosche reggine al “mandamento Ionico”» e gestisce un bacino di voti dei quali «destinatario era proprio Totò Caridi».
Un politico navigato, nonché figura che chiuderebbe il cerchio intorno al sistema portato avanti da Paolo Romeo. Un sistema che propizia l’ingresso della «‘ndrangheta a Palazzo San Giorgio, all’interno della Provincia di Reggio, oggi città metropolitana, o all’interno dei palazzi della Regione Calabria, a Reggio e a Catanzaro «e non entra chiedendo permesso, ma da padrona dell’istituzione. E lì – dice Lombardo – lo Stato ha perso il controllo totale di organi di rilevanza costituzionale. Questo è un disegno eversivo che a Reggio Calabria non è stato immaginato, è stato attuato per circa 15 anni». (redazione@corrierecal.it)
x
x