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l’intervista

Tiberio Bentivoglio: «Se chiuderò non sarà per ‘ndrangheta, ma per mancanza di Stato»

L’imprenditore e “testimone di giustizia” potrebbe rischiare lo sfratto per conto del Comune di Reggio. «Come posso dire agli altri di denunciare?»

Pubblicato il: 23/05/2021 – 10:00
di Francesco Donnici
Tiberio Bentivoglio: «Se chiuderò non sarà per ‘ndrangheta, ma per mancanza di Stato»

REGGIO CALABRIA «C’è rabbia. E menomale. Se c’è rabbia nell’individuo che chiede i suoi diritti, vuol dire che ha voglia di andare avanti. Se invece ci rassegniamo, diventiamo indifferenti o ci consoliamo stando nel silenzio, allora abbiamo perso davvero».
Tiberio Bentivoglio, imprenditore riconosciuto testimone di giustizia e vittima di ‘ndrangheta a fronte delle vessazioni e degli attentati subiti dai clan della città di Reggio Calabria, si trova ad affrontare una nuova e diversa battaglia.
Il Comune ha notificato a lui e alla moglie, Vincenza Falsone (in foto), una lettera di messa in mora dove chiede la corresponsione dei canoni di locazione riferiti all’immobile confiscato nei pressi del lungomare, che da circa sei anni ospita la “Sanitaria Sant’Elia”, il loro negozio di prodotti sanitari e per l’infanzia.
Esempio più unico che raro in città (ma anche in Italia), quello di un imprenditore che non soltanto decide di denunciare le estorsioni e le intimidazioni ‘ndranghetiste, ma chiede di proseguire la sua attività in quello stesso luogo un tempo teatro di affari illeciti. «Dobbiamo riprenderci ciò che hanno distrutto i mafiosi e lo Stato deve esserci, sostenendoci anche con le leggi e non solo a parole».
L’inaugurazione del bene, fissata lo scorso 15 marzo 2016 era stata preceduta, il 28 febbraio, da un attentato incendiario. «Durante i lavori (che costeranno una cifra intorno agli 81mila euro, ndr) per ristrutturare il bene e renderlo agibile – racconta Bentivoglio al Corriere della Calabria – abbiamo subito l’attentato più grosso della nostra storia. È stato bruciato il deposito in cui era tenuta tutta la merce che doveva essere trasferita in questo locale confiscato. Più di 800mila euro di merce sono andati distrutti». Da qui la richiesta di rinegoziare il canone, anche per far fronte alle nuove necessità. Ma il Comune ora si presenta per riscuotere. «Se vogliono mandarci via, andremo via, nel rispetto di queste leggi. Ma non possiamo farlo in silenzio. Oggi chiediamo aiuto».

«Una storia di coraggio e di solitudine»

Tiberio Bentivoglio insieme al sindaco di Reggio, Giuseppe Falcomatà

Lo scorso gennaio, senza andare troppo indietro con la memoria, all’indomani dell’operazione “Nuovo Corso” dove la Dda di Reggio Calabria portava alla luce, grazie alle denunce di alcuni imprenditori, una fitta rete di estorsioni messa in atto dalle “famiglie” del “mandamento Centro”, il Comune dichiarava che si sarebbe costituito parte civile all’eventuale processo. Scriveva il sindaco Falcomatà: «In questo quadro risulta assolutamente fondamentale l’atto della denuncia da parte degli imprenditori, vera e propria chiave di volta, in grado di mettere gli inquirenti nelle condizioni di intervenire contro gli interessi della malavita ed a protezione delle stesse imprese. Chi denuncia va sempre sostenuto e supportato». C’è una distonia di fondo tra queste parole e la richiesta avanzata dallo stesso Comune, assegnatario del bene, di vedersi corrisposto l’ammontare dei canoni di locazione pari a tremila euro al mese, per i cinque anni passati, ai coniugi Bentivoglio. Soldi di cui non dispongono, a fronte delle spese sostenute per coprire i danni provocati dagli attentati subiti. Dal 1992 ad oggi se ne contano in tutto sette. «Dal primo giorno – dice l’imprenditore – abbiamo chiesto la rimodulazione di questo canone, perché non ce la facciamo a pagarlo. Abbiamo ricevuto sempre risposte verbali del tipo “sì, ora vediamo”». Ma nulla è successo, tanto che la missiva non arriva come un fulmine a ciel sereno. «In prima battuta ci è stato intimato di pagare altrimenti il Comune avrebbe agito per vie legali. Questo significa che potrebbe essere fatto un atto ingiuntivo nei nostri confronti al quale potrebbe seguire la richiesta di sfratto».
A quel punto, lo scorso 12 maggio, Bentivoglio decide di portare all’attenzione di istituzioni e autorità, nazionali e locali, la questione, scrivendo una lettera.
All’appello hanno risposto il Procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, che per la causa si era speso già durante la sua esperienza reggina e il presidente della commissione antimafia, Nicola Morra. Don Ennio Stamile, referente regionale di Libera, ha invece rilanciato l’appello del testimone di giustizia: «Quella di Tiberio – scrive – è una storia di coraggio e di solitudine, di ingiustificabili ritardi della prefettura reggina, di attese di verità e di giustizia per le sue reiterate denunce. (…) La lotta alla ‘ndrangheta ha bisogno di fatti concreti e coloro che denunciano non debbono per nessun motivo essere lasciati soli, né attendere tempi biblici prima di essere concretamente aiutati».

Dalle bombe al tentato omicidio

I danni provocati nel magazzino dalla bomba del 28 febbraio 2016

«Dal 1992 al 2014 – riporta la lettera – siamo stati, come imprenditori, vittima di: “reiterati episodi violenti, lesivi ed intimidatori di intensissima gravità riconducibili certamente alla pressione della ‘ndrangheta ed alla sua strategia di intimidazione che non vorrebbe lasciare spazio all’iniziativa economica libera”». Richieste di “pizzo”, bombe, intimidazioni e danneggiamenti hanno portato al riconoscimento come “testimoni di giustizia” e “vittime di mafia” ai sensi della legge 44 del 1999.
Dopo i furti di merce e l’incendio ad un furgone, il 5 aprile 2003 viene fatta esplodere una bomba nei locali dell’attività commerciale. «La scientifica finì di fare i rilievi verso l’una del giorno dopo. Alle quattro di pomeriggio riaprii il negozio calpestando pezzetti di vetro per terra. Ho coperto con un telone la serranda e il muro che non c’erano più. Volevo mandare il segnale che la ‘ndrangheta non mi aveva fermato».  
E dopo una serie ripetuta di minacce, l’imprenditore subisce un tentato omicidio. Il 9 febbraio 2011, ad attenderlo fuori dal negozio ci sono dei sicari coi quali ingaggia un conflitto a fuoco. Riporta il verbale: “È stato attinto da un proiettile ad una gamba, mentre l’altro proiettile ha trovato ostacolo nel borsello che il Bentivoglio portava al collo”. L’attività commerciale, in concomitanza con l’inizio dei procedimenti giudiziari, risente dello stigma che spesso produce “terra bruciata” intorno agli imprenditori che denunciano il “pizzo”. «Le leggi in favore di chi denuncia esistono, ma sono obsolete. – dice Bentivoglio – Ci sono punti che ci fanno più male che bene».

«Voglio poter continuare a dire: non pagate il pizzo»

«Mentre leggono queste notizie, i mafiosi festeggiano perché pensano che chi li ha denunciati stia soffrendo. E invece io voglio vincere per diventare contagioso. Voglio vincere per dire al mio amico commerciante, al mio vicino di locale, “smettila di pagare perché io ho vinto”. Ma se prima non vinco non lo posso fare. In queste condizioni non posso andare a dire non pagate il pizzo. E se chiuderò, chiuderò per mancanza di Stato, ma non per la ‘ndrangheta».
Dopo il tentato omicidio del 2011, l’imprenditore aveva fatto richiesta al Viminale appellandosi alla legge 302 del 1990, senza ricevere risposta. Inoltre, delle somme spettanti ai sensi della legge 44 «abbiamo ricevuto solo una cifra pari al 15-20% nel 2019, quale parziale ristoro dei danni subiti nel 2016». Cifra in buona parte pignorata dall’Agenzia delle Entrate «perché sono in arretrato coi contributi», cosa che ha comportato il mancato rilascio del “documento unico di regolarità contributiva” (Durc). «Lo Stato mi ha ipotecato anche la casa perché sono moroso rispetto a quei tributi che prima degli attentati pagavo minuziosamente». Ci sono però ulteriori aspetti controversi. Da un lato «le elargizioni non erano pignorabili», motivo che ha portato ad avviare una controversia tributaria – temporaneamente arenatasi causa Covid – per vederne il recupero. Dall’altro, la mancata applicazione della delibera 17 del 2012 del Comune di Reggio Calabria. Il provvedimento riconoscerebbe «in favore delle imprese che hanno sporto denuncia contro il racket, le esenzioni per i tributi locali maturati dal 2012 in poi ed il diritto delle stesse a rateizzare le annualità di imposte e tasse locali». «Questa delibera esiste, è reale, ma mai applicata».

«Solo a Reggio abbiamo centinaia di beni confiscati non utilizzati»

Federico Cafiero De Raho e don Luigi Ciotti all‘inaugurazione del 15 marzo 2016

«Il Comune di Reggio, con riguardo all’immobile confiscato, è “padrone di casa”». Sentito in Commissione parlamentare antimafia, Bentivoglio si era fatto portavoce della richiesta di estendere l’alveo dei soggetti che ai sensi della legge 109 del 1996, sul riutilizzo sociale dei beni confiscati, possono chiederne l’assegnazione. La legge a iniziativa popolare proposta dall’associazione Libera grazie alla raccolta di oltre un milione di firme, non prevede infatti che i beni possano essere affidati “a fini sociali” anche a vittime di mafia o imprenditori che denunciano. «Ho chiesto mille volte di rivederla, anche prima che ricevessi il bene confiscato. Ho chiesto che venisse aggiunto chi ha denunciato e non ha più un’attività. Basta un comma, ma i legislatori devono sedersi a ragionare. Solo a Reggio abbiamo centinaia beni confiscati chiusi. (secondo il report Fattiperbene di Libera del marzo 2021, in Calabria i beni confiscati sono 4.786 di cui il 40% è senza destinazione. I beni non destinati, solo nella provincia di Reggio, sono 1.120, ndr) Quali associazioni possono prenderli? Diamoli agli imprenditori che hanno denunciato, diamoli a chi denuncia l’usura. Che schiaffo sarebbe entrare nella casa dei mafiosi e fare imprenditoria. Usarli questi beni, non lasciarli lì a distruggersi pian piano».

«Bisogna rimanere in Calabria. Ma abbiamo bisogno di uno Stato forte»

Fin a che punto, lo Stato, tutela gli imprenditori che denunciano? «Anche giuridicamente parlando – dice Bentivoglio – non siamo messi bene». Lo scorso 20 maggio è iniziato il sesto processo che lo vede parte offesa e nel quale ha deciso di costituirsi parte civile. «La denuncia risale a settembre 2016. Il processo è iniziato dopo cinque anni. Due altri processi sono stati prescritti. E, per chi denuncia, è meglio un proiettile della prescrizione».
Anche per questo, molti scelgono di abbandonare le loro attività e questa terra. «Bisogna rimanere in Calabria. – dice Bentivoglio con voce ferma – Bisogna guardare in faccia i propri aguzzini quando escono dal carcere, perché significa denunciarli un’altra volta. Io li ho visti e abbassano gli occhi ora, non sono più spavaldi. Io ho fatto questa scelta come l’hanno fatta tanti. Vogliamo rimanere in trincea e chiediamo munizioni per poterci difendere. E le munizioni deve darcele lo Stato, non può arrivare tardi, dev’essere accanto a noi. Deve abbracciarci, non può arrivare quando lo cerchiamo noi. Abbiamo bisogno di uno Stato forte, non piccolo. Non di pratiche ferme sulle scrivanie delle prefetture, ma di risposte pronte». (redazione@corrierecal.it)

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