CATANZARO Generare i semi dello sviluppo endogeno facendo leva sull’innalzamento del capitale umano. Un obiettivo che può essere raggiunto a partire dal recupero del gap di alta formazione che separa il Mezzogiorno e la Calabria in particolare, dal resto del Paese.
La strada maestra resta quella di sostenere con le risorse aggiuntive che proverranno dal Pnrr un robusto piano di valorizzazione del sistema universitario calabrese che necessita di somme importanti non solo per reggere la potente concorrenza degli Atenei delle regioni del Centro-nord, ma addirittura attrarre studenti provenienti da altre realtà. Non solo. Permettendo parità di opportunità ai giovani di raggiungere alti livelli di formazione rimanendo in Calabria. Senza dover emigrare già nella fase più importante della propria crescita personale.
Una sfida, vera ed ambiziosa, che potrà essere giocata sfruttando nel migliore dei modi quelle somme che si trovano in pancia del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) – approvato di recente anche dall’Ecofin – sotto la missione 4: istruzione e ricerca. Si tratta di 30,88 miliardi di euro di cui una quota consistente dedicata proprio al mondo universitario in parte per potenziare l’offerta di servizi d’istruzione e in parte alla ricerca. Oltre 15 miliardi infatti sono destinati al sistema degli Atenei con l’obiettivo primario di colmare quel divario di formazione tra territori – e dunque di opportunità di crescita socio-economica – che per una regione come la Calabria diventa punto essenziale per poter realmente sperare nel futuro.
Superando quei limiti che attualmente sussistono a partire proprio dalla formazione del capitale umano. Un tema delicato per una regione che continua a registrare forti criticità sia per tasso di giovani senza alta qualificazione, sia per un’elevata percentuale di abbandono del percorso di studi. In entrambi gli indici, la Calabria detiene record negativi.
E senza un’adeguata formazione il rischio di non entrare affatto nel mercato del lavoro s’innalza con il conseguente impoverimento del tessuto sociale e produttivo locale. Da qui l’imperativo di saper cogliere appieno l’occasione “storica” offerta dalle somme straordinarie programmate dal Pnrr per uscire dal terreno della marginalità in cui la Calabria è sprofondata da decenni.
Passando a setaccio i dati che riguardano i livelli di formazione dei giovani calabresi emerge che neppure 8 studenti su 10 in un’età compresa tra i 20 e 24 anni ha raggiunto almeno un titolo di scuola secondaria superiore. Un dato che resta praticamente stabile nel tempo: nel 2013 il tasso era pari al 78,8% sceso poi a 78% sei anni dopo.
Una condizione che pone la Calabria ai gradini più bassi per livello di preparazione dei propri giovani. Un dato che fa il paio con il tasso elevato di abbandoni scolastici che nello stesso lasso di tempo è addirittura cresciuto: passando dal 16,2% del 2013 al 19% del 2019. Procedendo tra l’altro in controtendenza sia sull’andamento nazionale che del Mezzogiorno. In Italia ad inizio di quel periodo la media era pari al 16,8% per poi scendere al 13,5%. Mentre al Sud gli abbandoni sono passati dal 21,1% al 18,2%. Lasciando così la Calabria agli ultimi posti. Dunque una bassa qualità della formazione che si riversa anche sul livello di apprendimento scolastico. Nelle prove Invalsi – come emerge dall’omonimo rapporto – oltre sei studenti su dieci (esattamente il 64%) non raggiunge la soglia minima di competenze in italiano e non va meglio in matematica visto che in questa materia non raggiungono il minimo di preparazione 7 giovani su 10. Senza contare la qualità delle conoscenze linguistiche dove le cifre diventano “imbarazzanti”: il 67% degli studenti calabresi al termine del ciclo di scuole superiori non ha raggiunto la soglia minima nell’inglese-reading, percentuale che sale all’ 82% nel listening regalando alla Calabria il triste primato in negativo in Italia.
Numeri, questi valutati dal Rapporto Invalsi, che si tramutano in quella che gli analisti dell’Ente di ricerca – erede del Centro europeo dell’educazione (Cede)- definiscono «dispersione scolastica implicita», cioè «quella degli studenti che – chiariscono – pur non essendo dispersi in senso formale, escono però dalla scuola senza le competenze fondamentali, quindi a forte rischio di avere prospettive di inserimento nella società non molto diverse da quelle degli studenti che non hanno terminato la scuola secondaria di secondo grado». Ed in questa categoria rientra il 22,4% degli studenti calabresi (anche qui record italiano). Senza una robusta preparazione così diviene una missione impossibile non solo accedere ad altri livelli di istruzione superiore come quello universitario, ma a trovare collocazione nel mondo del lavoro. Secondo il report di BankItalia sulle caratteristiche individuali dei non occupati (che comprende disoccupati ed inattivi impiegabili) pesa tremendamente il titolo di studi conseguito: in Calabria oltre il 40% dei non occupati ha raggiunto appena la licenza media.
Se il percorso di formazione è irto di ostacoli nelle scuole primarie e secondarie, non è da meno quello che caratterizza la strada universitaria. Qui le difficoltà provengono da un sistema che penalizza il reclutamento del corpo docenti e la distribuzione di risorse per finanziare gli Atenei e che per questo, genera una disparità di possibilità di qualificare l’offerta formativa locale – nonostante il massimo impegno profuso dai vertici delle tre università calabresi – a vantaggio di altre realtà fuori regione. Università queste ultime – soprattutto quelle grandi del Centro-nord – che proprio per l’attuale meccanismo di distribuzione delle risorse, fanno incetta di finanziamenti pubblici e privati.
A rilevarlo un dettagliato rapporto dall’emblematico titolo “Le Università per lo sviluppo dei territori” redatto da un gruppo di lavoro coordinato dalla Svimez.
Nel paper emerge innanzitutto il «progressivo disinvestimento pubblico» delle Università. Infatti l’entità del Fondo di finanziamento ordinario delle università (Ffo) è passata dai 7,17 miliardi di euro del 2007 ai 7,8 miliardi del 2020 (somma, fanno notare gli analisti, che incorpora anche gli interventi a carattere straordinario e a destinazione vincolata di spesa, dai dipartimenti di eccellenza ai piani straordinari per l’assunzione di professori e ricercatori). Risorse comunque al di sotto della media Ocse (0,9% del Pil a fronte dell’1,4%). Entrando nel meccanismo di finanziamento, spiegano i ricercatori, «non tengono conto della tipica struttura dei costi degli atenei, più specificatamente delle economie di scala e, pertanto finiscono per penalizzare quelli che, in ragione della perifericità, sono “relegati” a volumi di attività relativamente bassi». Così negli ultimi anni «si è assistito ad una concentrazione di risorse in Atenei del Nord e/o in aree più centrali e urbane, con perdite di risorse, misurate in termini del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo)».
Una discrepanza che si riverbera poi sulla qualità delle attività istituzionali degli atenei e sulla possibilità che possano svolgere un ruolo cruciale nel processo di sviluppo dei territori. Un meccanismo perverso che si riflette su una situazione di squilibrio esistente tra Atenei ben fotografabile con l’analisi del numero di docenti e ricercatori universitari sulla base della popolazione. Su questo indicatore emerge che la Calabria è tra le regioni italiane dove quel rapporto è il più basso: poco più di un docente ogni mille abitanti contro gli oltre due di Lazio, Toscana e Friuli Venezia Giulia. Ed anche il sistema di reclutamento straordinario di giovani ricercatori registra “storture”. Qui anzi la Calabria, secondo il report della Svimez, subisce una vera e propria ingiustizia. Nel periodo 2015-2019 sono stati reclutati in media in Italia 2,12 Ricercatori a tempo determinato ogni diecimila abitanti mentre negli Atenei calabresi quella media scende a 0,91. Con una peculiarità in più nonostante la qualità della ricerca sia stata superiore ad esempio di quella degli atenei del Trentino-Alto Adige quest’ultima ha reclutato 3,5 ricercatori a tempo determinato ogni diecimila abitanti: un dato quasi quadruplo di quello calabrese.
Aspetti che potrebbero essere alla base del continuo esodo fuori regione di giovani studenti. Seppure in diminuzione in termini assoluti – erano 5.515 i calabresi che nell’anno accademico 2004-2005 si immatricolavano fuori regione contro i 3.963 del 2018-2019 – quel dato in percentuale si è incrementato: passando dal 37% al 40%. Un fenomeno che riguarda l’intero Mezzogiorno. Nell’ultimo rapporto Alma Laurea emerge che ben il 26% dei laureati nel 2020 sono giovani meridionali che si sono iscritti in Atenei del Nord.
Da qui la necessità di invertire questo trend per restituire alla Calabria – e al Sud in generale – quel futuro di speranza che deriva soprattutto dalla capacità di innalzare la qualità della formazione dei suoi giovani. Per centrare questo obiettivo occorre, concludono gli esperti della Svimez, «puntare su una riduzione drastica degli squilibri strutturali» facendo appunto leva sulle risorse del Pnrr. Diversamente c’è un pericolo che la Svimez fa emergere: «Il rischio è che in assenza di politiche attive volte a valorizzare l’autonomia responsabile degli atenei e a riformare i meccanismi di allocazione delle risorse, l’implementazione delle misure del Pnrr possano amplificare, piuttosto che ridurre, i divari tra gli Atenei del centro e quelli di periferia, tra gli Atenei grandi e quelli piccoli». In altre parole allargando il divario e tradendo così la ratio stessa per la quale il Pnrr è nato: coesione e riequilibrio territoriale. (r.desanto@corrierecal.it)
x
x