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inchiesta “atto finale”

Le trame di Vincenzo Facchineri in Lombardia. Ma per il gip non è ‘ndrangheta

Dopo le denunce di due imprenditori la Dda di Brescia cerca di ricostruire l’esistenza di una cellula collegata alla “famiglia” di Cittanova. Il giudice riconosce (solo) il “metodo mafioso” sulla b…

Pubblicato il: 26/10/2021 – 7:36
di Francesco Donnici
Le trame di Vincenzo Facchineri in Lombardia. Ma per il gip non è ‘ndrangheta

REGGIO CALABRIA L’inchiesta “Atto finale” della Dda di Brescia, a fronte delle valutazioni che hanno portato all’applicazione di 14 misure cautelari (di cui 12 in carcere), corre lungo il filo che delinea il perimetro della qualificazione delle “associazioni a delinquere di stampo mafioso” fuori dalle regioni “storiche”. Al centro dell’indagine spiccano due figure: Vincenzo Facchineri e Salvatore Muià, la cui vicinanza agli ambienti ‘ndranghetisti pare non destare grossi dubbi negli organi inquirenti e nei giudicanti della fase cautelare. Dubbi vengono invece sollevati dal gip del tribunale di Brescia, Riccardo Moreschi, in ordine all’esistenza di un’autonoma cellula di ‘ndrangheta operante nel Bresciano e facente capo agli stessi. Per giungere a questa valutazione, il giudice – che riconosce la sussistenza del “metodo mafioso” ma non di un’associazione ex 416-bis – richiama la dibattuta pronuncia della Cassazione nel processo “Mafia Capitale”

Le figure di Facchineri e Muià

Nell’indagine condotta dalla procura guidata da Francesco Prete finiscono in tutto 62 persone facenti parte, secondo gli inquirenti, di due distinte associazioni: una di stampo mafioso e l’altra “ordinaria” ma “aggravata dal metodo mafioso”.
La prima sarebbe composta da 14 persone rispondenti agli ordini di Vincenzo Facchineri, classe 68, ritenuto membro della “famiglia” di ‘ndrangheta egemone nel comune di Cittanova, nel Reggino. Questi viene individuato quale «promotore e direttore della struttura criminale di cui si ritiene il capo indiscusso e il punto di riferimento». A lui spetterebbe il compito di definire le gerarchie interne al gruppo, pianificare le attività criminali e risolvere eventuali problematiche e controversie. Compiti che, secondo gli inquirenti, avrebbe rivestito almeno a partire dal 1996. Ruolo non messo in crisi dall’arresto durato fino al 4 giugno 2018 quando riprenderà l’attività investendo soprattutto su una rete di estorsioni ed usure. Durante la detenzione, lo sostituisce il cognato, Salvatore Muià, classe 70, che lo «coadiuva nella gestione dell’associazione accompagnandolo agli incontri anche con soggetti di spessore» negli ambienti ‘ndranghetisti. La procura richiama su tutti “u Dutturicchiu”, Giuseppe Calabrò. Il classe 50 originario di San Luca, esponente di peso dei “Romeo-Staccu”, definito «uomo di peso della ‘ndrangheta», con diversi affari a Milano. Nel 1990 – stando ad alcune informative di polizia – avrebbe progettato un agguato contro l’allora capo della polizia Vincenzo Parisi.

Gli imprenditori denunciano usura ed estorsioni

L’inchiesta parte dalle denunce di alcuni imprenditori lombardi, una delle quali risale a luglio 2020  e fa capo a un imprenditore attivo nel settore del noleggio autovetture. Questi racconta che, versando in difficoltà economiche, aveva ottenuto da un altro soggetto, Roberto Franzè, classe 76, originario di Vibo Valentia, 4 prestiti da 100mila euro con tasso di interesse mensile del 10% ciascuno (trovandosi in seguito a pagare un totale di interessi per 230mila euro). Non riuscendo a rispettare gli accordi, l’imprenditore viene rimbalzato tra una serie di altri soggetti tra cui Rocco Zerbonia, classe 71 e Raffaele Maffettone, classe 63 «i quali – come riferito all’atto della denuncia – a loro volta si rapportavano con Facchineri e Muià» a lui noti «per essere intranei alla ‘ndrangheta». Vengono elargiti nuovi prestiti di denaro con interesse usurario che comprende anche il noleggio a titolo gratuito di una serie di autovetture. Per riavere indietro alcune di queste, una volta illecitamente prelevate dai soggetti, a maggio 2020 l’imprenditore viene costretto a versare sette assegni oltre che a sottoscrivere un riconoscimento del debito. Facchineri non prende direttamente parte alla vicenda, ma secondo la procura il suo coinvolgimento sarebbe dimostrato da alcune conversazioni dove invita i presunti sodali tra cui Francesco Scullino, classe 65 originario di Oppido Mamertina, a «farsi un appuntamento (con l’imprenditore, ndr) per rimproverarlo» ribadendo che «in caso di problemi avrebbe dovuto rivolgersi a lui».  

«Facchineri aveva la dote di “Medaglione”»

Secondo l’accusa, dunque, almeno dal 1996, nella provincia di Brescia opererebbe un’associazione «che si avvarrebbe della forza di intimidazione del vincolo associativo della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva» al fine di commettere una serie di illeciti «nonché affermare il proprio controllo sul territorio». La base della contestazione, secondo la procura, risiede in una serie di episodi presunti criminosi, alcuni dei quali facenti capo anche ad un altro imprenditore bresciano in passato dedito a reati fiscali e panalfallimentari.
Nella ricostruzione fornita agli inquirenti nel 2019, lo stesso avrebbe dichiarato di aver ottenuto, già alla fine degli anni 90, «la protezione della famiglia Facchineri, affiliata alla ‘ndrangheta, dalle pretese estorsive avanzate nei suoi confronti da un ex socio». Il tutto, in cambio di alcune somme di denaro corrisposte a Vincenzo Facchineri (e ai suoi familiari). Così fino al primo arresto del 2014, quando l’imprenditore racconta la dinamica agli inquirenti: «Dal 1995 ebbi modo mio malgrado di entrare nelle dinamiche criminali delle famiglie calabresi operanti su Brescia». Il collante era l’ex socio, Francesco Scullino che a detta dell’imprenditore possedeva «la dote di Santista» a differenza di Vincenzo Facchineri che «come da lui dettomi, possiede la dote di Medaglione».
Nel 2018, finita la detenzione di Facchineri, questi tornerà a rivolgersi all’imprenditore chiedendo, attraverso alcuni “pizzini” ed emissari, degli incontri dove verrà messo in chiaro che a fronte della sua «infedeltà» dovrà cedergli somme per 200mila euro (chiesti in prima battuta) oltre a parte dei beni che in quel frangente gli erano stati sequestrati, in caso di superamento della misura.
Gli inquirenti fanno inoltre perno su alcuni aspetti dell’operato degli indagati come «gli stabili contatti operati con modalità particolarmente prudenti» caratterizzate dal continuo cambio di apparati telefonici.

Per il gip sussiste il “metodo mafioso” ma non un’associazione mafiosa operante nel Bresciano

Secondo il gip Moreschi, le circostanze valorizzate dall’accusa non sarebbero sufficienti a provare l’esistenza di un’associazione a delinquere strutturata per compiere «una serie indeterminata» di reati in forma sistematica. Di fatto, previa denuncia delle parti interessate, emergono negli atti di indagine solo le due vicende estorsive che secondo il giudice corrispondono a «fatti eterogenei commessi in luoghi ed epoche diverse».
Ma il gip dice anche qualcosa in più: «Non è adeguatamente dimostrata la natura mafiosa dell’associazione». Nel farlo, il giudice applica comunque la misura cautelare della custodia in carcere a Facchineri riconoscendolo come soggetto vicino agli ambienti di ‘ndrangheta.
Facchineri e Muià risultano «gravati da precedenti condanne per mafia» in quanto appartenenti alla cosca “Facchineri”, «potente sodalizio di stampo ‘ndranghetista egemone a Cittanova e San Giorgio Morgeto». Ma la sola loro presunta appartenenza alla criminalità organizzata calabrese e le attività presunte illecite perpetrate sul suolo lombardo non bastano di per sé a dimostrare l’esistenza di una cellula autonoma operante nel Bresciano.  
In tal senso, il giudicante richiama la discussa sentenza della Cassazione (n.18125/2020) nel processo “Mafia Capitale” sul così detto tema delle “nuove mafie”, operanti fuori dai confini storici, in forma autonoma. Per tale si renderebbe necessaria «un’effettiva capacità di intimidazione che deve avere la sua esteriorizzazione», quindi manifestarsi attraverso fatti concreti che dimostrino l’esistenza del gruppo criminale (e il suo controllo del territorio) nonché dal «prestigio criminale».
In altri termini «la fama criminale dev’essere quella impersonale del gruppo» (principio che vale anche per le “locali” in quanto diramazioni di mafie storiche operanti su territori diversi da quelli d’origine) e non vincolata a uno o più soggetti in particolare. Se ciò è, l’associazione produrrà anche delle ricadute sull’ambiente esterno «in termini di assoggettamento ed omertà».
Criteri che secondo il gip non ricorrono in questo caso perché dagli atti d’indagine non risulterebbero elementi che attestano «il carattere originario e autonomo dell’associazione» operante nel Bresciano rispetto alla “famiglia” di Cittanova cui dovrebbe essere collegata. Né è riscontrata l’acquisizione di una «fama criminale impersonale, quale gruppo mafioso bresciano, autonoma rispetto al carisma di Facchineri e Muià», il cui personale inserimento nella ‘ndrangheta pare produrre forza di intimidazione nelle vittime. In ultimo «rimane indimostrato l’assoggettamento omertoso della comunità bresciana nei confronti dell’associazione».
Nell’applicare le misure cautelari ad alcuni degli indagati, il gip riconosce la sussistenza del “metodo mafioso” perché è «senz’altro vero che gli indagati si sono avvalsi del carisma mafioso di Facchineri e Muià» ma non vi sono altrettanti elementi per sostenere che questi abbiano formato un’associazione riconoscibile coi lineamenti della ‘ndrangheta. (redazione@corrierecal.it)

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