La furia iconoclasta che accompagno ‘la caduta del muro e lo sgretolamento del socialismo reale nell’Europa orientale portò, come conseguenza naturale, l’avvio di una progressiva liberalizzazione anche nei paesi, come l’Italia, che avevano una forte connotazione statalista.
Negli anni novanta, soprattutto nel primo periodo successivo alla decomposizione comunista, fu realizzata la più grande operazione di privatizzazione del sistema bancario continentale e delle partecipazioni statali
La coincidenza non causale con Maastricht ebbe effetti in tutta l’area di pertinenza atlantica, con la ovvia eccezione della Francia, che conservava la sua vocazione nazionalista come avamposto del pensiero economico, nettamente prevalente sulla paventata europeizzazione.
Tralasciamo i dettagli, troppo complottistici, della diffusione del liberismo come modello di subentro gestionale sul credito per affrontare i risvolti di questa gigantesca opa sull’economia sociale di mercato.
L’Italia aveva un modello gestionale infrastrutturale a prevalenza pubblica, di derivazione fascista come sede legislativa e decisione politica.
Eppure il sistema delle partecipazioni statali, con l’idea di unire lo Stato al libero mercato, fu approfondito secondo uno spirito keynesiano anche nel primo dopoguerra.
L’Iri, l’Efim, solo per citare alcuni colossi dell’impresa pubblica, avevano svolto un ruolo fondamentale per l’intrapresa.
Erano macro aree di start up che, al netto delle degenerazioni degli ultimi anni, fecero crescere la grande industria nazionale.
Smantellare, in nome di un neo capitalismo senza guinzaglio, un sistema così consolidato non è stata una buona idea né sul piano fattuale, né come impatto diretto sull’economia gestionale nazionale.
Che si potesse disegnare un coordinamento europeo in grado di conciliare protezione nazionale e nuova unità di intenti continentale era un’ esigenza non pienamente avvertita.
L’Europa immaginata negli anni 50 non avrebbe dovuto essere uno strumento di sopraffazione interna ma un’identità comune da costruire nel tempo non partendo dall’economia.
Nel bilancio consuntivo e nella bilancia tra dare e avere il nostro Paese ha perso grandi centri commerciali strategici e ha, di fatto, abbandonato una seria politica industriale.
È quello che è accaduto negli ultimi 30 anni e che oggi meriterebbe una revisione.
Keynes era un liberale (più correttamente liberal – socialista) che aveva ben disegnato i limiti del capitalismo sfrenato.
L’idea di collettività, principio che ha radici culturali europee profonde, non può prescindere da una revisione che porti a riconsiderare la centralità dello Stato e la sua regolazione di mercato, oggi del tutto carente.
È certo un concetto strettamente legato all’economia reale e non alla fusione illimitata del principio smithiano della domanda e dell’offerta
La vera discussione che dovrebbe aprirsi in Europa è l’agibilità reale della sovranità interna in politica economica e in geo politica sulla strada di un ripensamento sistemico.
I risultati del liberismo centrale hanno contribuito all’impoverimento della vecchie middle class scivolata nel proletariato.
Le soluzioni forse risiedono nella riscoperta di un modello economico funzionale a un nuovo rapporto tra pubblico e privato. Nel nome di una possibile rigenerazione.
*Giornalista
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