COSENZA La fragilità del tessuto produttivo calabrese si dimostra nella sua interezza anche in questa fase particolarmente delicata per l’economia del Paese. E colpisce conseguentemente il mondo del lavoro che in Calabria non solo non riesce a colmare il divario formatosi dopo la crisi pandemica, ma denota un incremento di forme di precariato ancor più marcate rispetto al passato.
Le incertezze legate al perdurare del conflitto in Ucraina con l’incremento dei prezzi delle materie prime, le spinte inflazionistiche e l’irrigidimento del meccanismo di acceso al credito – conseguenza inevitabile del rialzo dei tassi d’interesse in area euro – hanno segnatamente colpito un’economia già asfittica come quella calabrese. In maniera più predominante rispetto ad altri contesti economici locali. Ad iniziare appunto dal mercato del lavoro che è il termometro più veritiero dello stato di salute dell’economia reale.
Sono le previsioni della Svimez che indicano come la regione stia pagando maggiormente gli effetti del traballante quadro economico scaturito dalla concomitanza degli effetti negativi della guerra in Ucraina, dell’inflazione e dell’innalzamento dei prezzi della materie prime.
Stando allo studio “Le previsioni per Centro-Nord e Mezzogiorno” della Svimez, emerge come l’impatto della crisi in atto penalizzi soprattutto il Sud. E la Calabria in questo scenario è tra le regioni più esposte, frenando la crescita in atto. Se in alcune regioni anche del Sud – come Puglia e Campania – l’occupazione nel corso dell’anno crescerà fino al 2,7% in Calabria la percentuale si fermerà a fine anno ad 1,6 punti. Per poi praticamente arrestarsi nel biennio successivo.
Infatti stando alle proiezioni dell’ufficio studi della Svimez, nel 2023 l’incremento dell’occupazione sarà pari allo 0,8% per poi scendere allo 0,5% dell’anno successivo. Percentuali che spingono la regione ancora una volta in fondo alla classifica italiana, per capacità di creare nuovi posti di lavoro. Un indicatore della fragilità sistemica del tessuto produttivo locale, a reagire ad eventi avversi.
Gli analisti della Svimez, inoltre indicano che se il quadro congiunturale in Italia dovesse peggiorare – con un innalzamento dello spread unitamente ad un irrigidimento dell’accesso al credito – la Calabria sarebbe tra i territori che ne soffrirebbero ancor di più. Ed è lo stesso report – che anticipa il quadro previsionale dell’economia futura delle regioni del Sud – a fare emergere a chiare lettere che «il costo dell’incertezza non solo pesa di più sull’intero Mezzogiorno, ma all’interno di questo influisce in negativo sui territori strutturalmente maggiormente fragili». «L’incertezza – scrivono laconicamente – è una tassa che colpisce chi dovrebbe recuperare di più».
E se il dato sul recupero dell’occupazione nel corso del 2021 e nei sei mesi di quest’anno c’è stato, lo si deve all’incremento soprattutto di posti di lavoro precari. Se al Centro-Nord le variazioni del tasso di crescita nel 2021 hanno interessato anche nuovi posti di lavoro a tempo indeterminato, al Sud quella crescita è dovuta interamente all’occupazione precaria. Si tratta di dipendenti a termine e a tempo parziale.
Ad esempio al Sud la percentuale di lavoratori a part-time involontario è pari al 77,5% contro la media del 54,7% del Centro-Nord. Così come il tasso di dipendenti a termine è decisamente più alto al Mezzogiorno rispetto alle regioni più ricche del Paese: 23% vs il 14,2%. A significare come la forbice tra le due aree del Paese resti una costante.
In questo quadro critico che investe l’occupazione, c’è un dato che segna un’anomalia del mercato del lavoro. Nonostante i tassi alti di disoccupazione che per la Calabria interessano oltre 114mila persone, le imprese denunciano la difficoltà ad intercettare lavoratori.
L’ultimo dato del Sistema Excelsior raccolto dall’Osservatorio Unioncamere-Anapal riferito al mese in corso, ad esempio, indica una difficoltà tra le aziende a reperire personale, pari al 38,7%. Una percentuale più alta di altre regioni del Centro-Sud come il Lazio, il Molise ma anche la Puglia, la Campania, la Basilicata e la Sicilia. Un dato che secondo gli analisti sarebbe anche in crescita rispetto al passato. A significare che qualcosa ancora è possibile fare nell’immediato per correggere le storture di un mercato che non fa incrociare correttamente domanda ed offerta di lavoro.
Rendere “appetibile” la qualità del lavoro offerto, ma soprattutto, realizzare le condizioni affinché si affermi un meccanismo virtuoso di sviluppo endogeno è la “ricetta” per creare lavoro vero in Calabria di Rosanna Nisticò, professoressa ordinaria di Economia applicata al Dipartimento di economia, statistica e finanza “Giovanni Anania” dell’Università della Calabria. La docente dell’Unical crede nella necessità di un «dialogo costante tra Università e imprese». Anche se è centrale, la capacità di utilizzare al meglio la massa di risorse destinate alla regione per recuperare il gap con le altre aree del Paese. «La possibilità che lavoro e sviluppo non rimangano un miraggio – dice – dipende dalla capacità di progettare, monitorare e accompagnare la realizzazione degli interventi, ma anche dalla capacità di individuare le specifiche carenze nei diversi ambiti dell’economia regionale e nella dotazione dei servizi pubblici essenziali, che condizionano la qualità della vita della popolazione e l’attrattività dei territori per lavoratori e imprese».
Il mondo del lavoro in Calabria sembra vivere una dicotomia. Da un verso la regione sconta il tasso più alto di disoccupazione, dall’altro anche qui gli imprenditori fanno fatica a trovare personale. Come spiegare questo fenomeno?
«Non c’è molto da stupirsi: i mercati sono imperfetti, e quello del lavoro presenta aspetti ancora più particolari di altri, con caratteristiche specifiche sia da parte della domanda che dell’offerta, che rendono possibile e frequente la presenza contestuale di posti vacanti e disoccupazione. I profili richiesti dalle imprese possono non coincidere con quelli dell’offerta di lavoro disponibile, tanto più se si tratta di figure professionali altamente specifiche e se il riferimento è al mercato del lavoro locale. Prescindendo da questo problema di mismatch tra profili della domanda e dell’offerta, in una regione in cui il tasso di disoccupazione è triplo rispetto a quello medio delle regioni del Nord-est e quasi doppio di quello italiano, vale la pena chiedersi quanto sia estesa la difficoltà che gli imprenditori incontrano nella ricerca di personale. Se abbia dimensione paragonabile a quella della disoccupazione che coinvolge 114 mila calabresi, se tale difficoltà non sia prevalentemente legata ad aspetti sia contrattuali che di contesto, se i posti di lavoro rimangono vacanti perché salari e condizioni di lavoro, quali ad esempio precarietà, durata e sicurezza, sono considerati non accettabili. Per citare Robert Solow, premio Nobel per l’Economia, l’operare di un principio di equità può spingere i lavoratori, per quanto disoccupati, a non accettare condizioni di salario e di qualità dell’occupazione ritenute basse nella prospettiva di riuscire a trovare lavoro, nel futuro o altrove, a condizioni migliori. Tenuto conto che dal punto di vista della qualità della vita delle persone l’occupazione non è solo “reddito”, ma è anche rappresentazione di sé, status, il modo in cui le persone vedono se stesse e come sono percepite agli occhi degli altri».
Leggendo le richieste registrate del sistema Excelsior, i profili più ricercati con elevata difficoltà di reperimento, sono risorse altamente specializzate. Le aziende lamentano scarsa preparazione. In Calabria ad essere maggiormente ricercati però restano profili medi. Perché queste differenze?
«I profili richiesti variano in base alle caratteristiche del sistema produttivo: una maggiore presenza di settori innovativi, di imprese in espansione e inserite nelle catene globali del valore, con mercati di sbocco internazionali si riflettono in una domanda di lavoro con profili a più elevata specializzazione. In Calabria, la struttura produttiva mediamente più debole rispetto alla media nazionale, dal punto di vista delle dimensioni d’impresa, della specializzazione nei comparti più dinamici e innovativi, di capacità di esportazione, di legami produttivi a monte a e valle, soprattutto a lungo raggio, esprime, di conseguenza, una domanda di qualifiche medio-basse. Naturalmente anche in Calabria esistono nuclei ristretti di imprese che domandano figure lavorative con elevate specializzazioni; tuttavia, questa categoria di lavoratori proprio perché fortemente professionalizzata è interessata alle migliori occasioni occupazionali in Italia e all’estero, il che spesso, per le ragioni accennate prima, dalle regioni relativamente arretrate, come la Calabria, tendono ad emigrare nelle regioni più sviluppate».
Ritiene che anche il mondo universitario non riesca a formare giovani che poi entrino nel mondo del lavoro locale?
«La mia opinione è che le università e il mondo produttivo debbano dialogare molto, in un continuo processo di apprendimento reciproco, di innovazione e miglioramento dei percorsi formativi, da un lato, e di quelli organizzativi e produttivi, dall’altro. Tuttavia, sarebbe un errore pensare che le università debbano circoscrivere la loro attività formativa alle richieste del mercato del lavoro locale perché la missione delle università è fare alta formazione, teorica e applicata, a prescindere dal territorio in cui gli atenei sono localizzati; perché il contributo delle università allo sviluppo del territorio deve andare in direzione dell’introduzione di avanzamenti e innovazione, non di adeguamento alle esigenze contingenti delle fasi del ciclo economico, così come il contributo del mondo produttivo alle università deve essere orientato alla richiesta di progresso economico, tecnico, sociale. Perché le università sono istituzioni di studio e di ricerca, la cui natura e finalità non devono essere confuse con quelle di istituzioni di collocamento al lavoro. Ciò detto, è indubbio che le università, soprattutto in aree svantaggiate, sono chiamate a svolgere un importante ruolo di “fertilizzatore” del contesto locale, fornendo capitale umano qualificato, conoscenza scientifica adeguata, ricerche e soluzioni tecnologiche e organizzative utili alla crescita delle imprese locali, modelli gestionali di servizi sociali fondamentali. Attraverso la cosiddetta “terza missione”, centrata sia sul trasferimento tecnologico che sulla missione sociale, le università da qualche anno stanno sperimentando, con non poche difficoltà e incertezze, un processo di progressivo “avvicinamento” alle società locali, alle loro istituzioni, alle imprese, ai problemi della sfera sociale. È complicato, a maggior ragione in aree con architetture istituzionali rarefatte come la Calabria, ma è possibile attivare processi di “fertilizzazione incrociata” tra università e contesto locale, senza egemonie precostituite, senza chiusure localistiche, senza collusioni distributive».
C’è poi un altro elemento che caratterizza la regione. L’elevata precarietà del lavoro. Da cosa dipende questo aspetto?
«Ritengo che le ragioni siano varie. In primo luogo, l’eccesso di precarietà è legata alle caratteristiche del tessuto produttivo, da noi molto più debole che in altre aree del Paese, che incontra più difficoltà a sostenere i vincoli amministrativi e finanziari previsti nei contratti formali. Conta molto anche la specializzazione settoriale, particolarmente squilibrata in Calabria verso settori con precarietà strutturale, come l’agricoltura, l’edilizia, il turismo. Inoltre, la più debole struttura reddituale della società locale si riflette in una maggiormente diffusa domanda di precarietà, di accordi di lavoro impliciti e non formali, per non perdere i sostegni assistenziali pensionistici o di disoccupazione. In sostanza, la convenienza dei datori di lavoro ad accordi di lavoro precari si sposa con la convenienza di una quota di popolazione, maggiore che altrove, ad accettare forme di lavoro precario».
E se l’occupazione nel resto del Paese ha risentito nella fase del rimbalzo dell’incremento positivo che ha spinto anche i contratti a tempo indeterminato, nella regione il recupero di posti di lavoro post covid è dovuto sempre a forme contrattuali precarie.
«Il ricorso a forme contrattuali precarie è tipico delle fasi caratterizzate da forte incertezza. Il rimbalzo post-covid ha fatto registrare un aumento dell’occupazione, anche sulla spinta delle previsioni di crescita economica e del programma di investimenti contenuto nel Pnrr. Tuttavia, a livello nazionale e non solo regionale, la disponibilità ad assumere da parte delle imprese, così come molti bandi delle amministrazioni pubbliche, hanno riguardato contratti di lavoro a tempo determinato. Nell’ultimo rapporto Istat, aggiornato al primo trimestre del 2022, si segnala per l’intero Paese un aumento tendenziale dell’occupazione (+4%) che coinvolge sia lavoratori dipendenti che indipendenti, e tra i primi quelli a termine (+16,3%) molto di più di quelli a tempo indeterminato (+2,6%). Se guardiamo ai dati sul lavoro intermittente, o a chiamata, che si contraddistingue per basse retribuzioni ed elevata precarietà, nel 2021 è aumentato in Italia del 12,6% e nel primo trimestre del 2022 la crescita è dell’86% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente: le posizioni a chiamata lavorano intorno alle10 ore settimanali pro-capite con una retribuzione oraria lorda di 11 euro, pari a soli 0,3 euro superiori a quella del 2012. Incertezza e instabilità, e di conseguenza il ricorso a forme contrattuali più flessibili e precarie, sono più marcati per i sistemi territoriali più deboli: così è per la Calabria».
I dati dell’ultimo rapporto Svimez, inoltre indicano che la fase delicata che il Paese sta attraversando a seguito della crisi ucraina e dell’inflazione inciderà maggiormente anche sull’occupazione calabrese dei prossimi anni. Dunque la regione è condannata anche in futuro a pagare pegno per il mancato sviluppo?
«L’insieme degli shock esogeni che si sono succeduti negli ultimi anni hanno colpito duramente l’economia del nostro Paese nella sua interezza, ma la capacità di risposta e di resilienza agli urti imprevisti sono direttamente proporzionali alla robustezza, all’articolazione settoriale, alla capacità innovativa, alla rete di interconnessioni funzionali, anche su scala internazionale, dei sistemi produttivi negli specifici territori. La Calabria, ampiamente deficitaria rispetto all’insieme di tali aspetti, ha mostrato nel corso degli anni una capacità di ripresa dalle crisi economiche più lenta e più flebile rispetto alle regioni più dinamiche del Paese, ancor più quando la risposta di politica economia del governo si è orientata su misure restrittive di spesa pubblica, che ancora oggi condiziona l’andamento complessivo del reddito regionale. La crisi energetica conseguente al conflitto russo-ucraino lascia, purtroppo, intravvedere la possibilità di interventi di contenimento dei consumi e della spesa pubblica ordinaria».
È possibile immaginare una strategia mirata che porti lavoro vero in Calabria?
«Senza dubbio quella che stiamo attraversando è una fase storica di cruciale importanza per l’attivazione di processi di sviluppo duraturi e dunque per accrescere produzione e occupazione a livello regionale. Le risorse messe a disposizione dal programma Next Generation EU e dalle politiche regionali dell’Unione europea, sono ingenti. La possibilità che lavoro e sviluppo non rimangano un miraggio dipende dalla capacità di progettare, monitorare e accompagnare la realizzazione degli interventi, ma anche dalla capacità di individuare le specifiche carenze nei diversi ambiti dell’economia regionale e nella dotazione dei servizi pubblici essenziali, che condizionano la qualità della vita della popolazione e l’attrattività dei territori per lavoratori e imprese. Non bastano ovviamente le risorse finanziarie, attualmente più consistenti che mai; ciò che conta ai fini del progresso e dello sviluppo regionale è che le risorse siano indirizzate ad aggredire i nodi e le strozzature, istituzionali e non, che frenano la crescita potenziale, a partire dal potenziamento della qualità dei processi scolastici, dall’ampliamento della dotazione e della qualità delle infrastrutture sociali della vita quotidiana, dal rafforzamento dei presidi di innovazione scientifica e sociale». (r.desanto@corrierecal.it)
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