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«E se il Pd diventasse partito socialista?»

Tutte le considerazioni previsionali contenute in questo articolo rimarranno utopiche. Però, diceva Celine, scrivere sulla sabbia è sempre meglio che tacere.Il Partito democratico ha perso malamen…

Pubblicato il: 29/09/2022 – 8:54
di Mario Campanella*
«E se il Pd diventasse partito socialista?»

Tutte le considerazioni previsionali contenute in questo articolo rimarranno utopiche. Però, diceva Celine, scrivere sulla sabbia è sempre meglio che tacere.
Il Partito democratico ha perso malamente le elezioni riuscendo nell’impresa di utilizzare una orrenda legge da esso partorita in una sacrificale sconfitta maturata già prima che si votasse.
Volendo essere precisi, il Pd ha preso gli stessi voti del 2018. Sarebbe inutile ritornare sulle ragioni che hanno spinto Letta a rinunciare ad ogni alleanza per contendere il terzo di seggi maggioritari al centrodestra. Questo epigono del cattolicesimo di sagrestia vocato alla sinistra si è già dimesso.
Il problema, però, non è sapere chi lo sostituirà ma come e se, probabilmente, bisognerà ancora puntare sul Pd come traino di una formazione di sinistra riformista o abbandonarlo al suo stagnante immobilismo.
Il Pd è nato 15 anni fa dalla fusione di due culture che già 30 anni prima, sotto l’egida di Aldo Moro e di Enrico Berlinguer, avevano dato vita al consociativismo di stato.
La cultura post comunista, sopravvissuta a Tangentopoli da indenne (anche e soprattutto perché schermata da un apparato formidabile di cooptazioni e cooperative) e alla caduta del muro, e quella post democristiana, ovvero della sinistra di base, che militava nella balena bianca con il sogno di liberare e sprigionare la militanza cristiana nel socialismo fattuale, si fusero avendo come punto di riferimento i democrat statunitensi.
Questa associazione, già dai tempi in cui era Ulivo, ha governato per tanti anni, vincendo di fatto una volta (il ’96) e rivincendo (con molti dubbi e sospetti) dieci anni dopo.
Tutto questo è avvenuto emarginando la forza propulsiva più importante della sinistra, quel Psi che aveva saputo scegliere, governare, innovare, modernizzare il Paese, 40 anni fa, mantenendo l’idea di uguaglianza e giustizia sociale.
Quando Craxi, nel ’78, scrisse il libretto nel quale indicava la strada del Psi, scegliendo Proudhon e non Marx, segnò il decennio successivo realizzando, da uomo di sinistra, una mole di riforme cosi innovative e avanguardiste che ancora oggi, leggendo il programma del Pd, sembrano di un altro pianeta.
Se il 2022 (eleggendo Tabacci…) la campagna elettorale del Pd è stata quella di temere il fascismo, il metro della crisi esistenziale di questo partito è evidente.
Tutta la narrazione di questo mese, con il collateralismo intellettuale, è stata un continuo assist agli avversari, con in prima fila Repubblica e La Stampa a fomentare l’antica, presunta superiorità intellettuale.
Sarebbe stato il caso, perlomeno, di temere il giornale di Piazza Indipendenza che, storicamente, da Craxi a Berlusconi fino a Salvini, ha montato campagne di stampa utili a far aumentare i consensi dei nemici.
Orlando, De Micheli o chicchessia, il prossimo congresso del Pd rischia di essere una conta o una ricapitolazione, nemmeno più massimalista, se è vero che questa parte in recita viene bene occupata da Conte.
Né può essere una novità la figura di una brava amministratrice emiliana che ha come punto qualificante quello di essere omosessuale, quasi che tutto ciò possa rappresentare, ripetiamo, sempre nel 2022, una novità.
E allora la sfida utopica sarebbe quella di trasformare il Pd in un partito socialista, mediterraneo, italiano, tricolore, nel solco di un disegno brillante che Craxi portò avanti in mezzo ai due poteri immobili di Dc e Pci, dando senso alla parola stessa di sinistra.
Il Pd non viene più votato nelle fabbriche e sopravvive grazie ad un’élite intellettuale autoreferenziale, a un ceto sociale tendenzialmente borghese e a una visione della società che non è interclassista.
L’onda cattocomunista fondante è già di per se affievolita e pensare che questo contenitore possa essere alternativo al mondo conservatore è una follia.
Se pure è stata spazzata via la grande classe dirigente socialista rimane il seme di un riformismo attuale, paradossalmente sempre più adatto a una contestualità in cui c’è conformismo e omologazione.
Una costituente socialista, aperta e inclusiva, con il tempo di costruirla e radicarla nel paese, darebbe forse una prospettiva diversa e credibile di governo.
Il Pd attuale (e quello presumibilmente futuro) rifiuta la sfida del presidenzialismo, che sempre Craxi introdusse, parla da solo, è una riserva indiana fondata su un antifascismo che suscita ilarità nell’opinione pubblica.
Eppure, il 37 % degli italiani non vota e in quella cifra c’è un potenziale 20% che potrebbe essere attratto da una propulsione significativa.
Il socialismo tricolore altro non è che un’idea di economia sociale di mercato legato a una forte identità, che concepisce l’Europa non come un insieme di liberismo, che preserva le tradizioni, che ha un rapporto di equilibrio con l’immigrazione, che non guarda alla Nato come una Chiesa infallibile ma come a un’alleanza di pace e non di guerra.
Sono solo alcuni dei temi che il Partito Democratico non rappresenta da sempre.
Le grandi stagioni dei diritti civili hanno avuto il nome e il cognome di socialisti e radicali.
Pensare di continuare la liturgia di un partito identificato con la vetustà, che canta bella ciao e invoca la Stalingrado, è una via senza uscita.
Dc e Pci, in realtà, furono sconfitti, dopo quel tragico 1978, proprio dall’idea socialista aperta e, per certi versi, rivoluzionaria.
Che questo resti un sogno è assai probabile. Un partito socialista nascente potrebbe essere, tra cinque anni, punto di riferimento del mondo di mezzo che non dà più fiducia a nessuno, non andando a votare . E coltivare l’utopia è una necessità ineludibile

*giornalista

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