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Affari comuni e scambi di favori: le sinergie tra ‘ndrangheta e Cosa Nostra per prendersi lo Stato

La relazione dell’Antimafia tratteggia i rapporti tra cosche calabresi e famiglie siciliane, dalla fine della seconda “guerra” alla stagione stragista

Pubblicato il: 08/01/2023 – 15:26
Affari comuni e scambi di favori: le sinergie tra ‘ndrangheta e Cosa Nostra per prendersi lo Stato

Interessi convergenti, scambi di favore e sinergie, anche nella fase “stragista”. Nel capitolo dell’ultima sua relazione dedicato ai rapporti tra criminalità organizzata e logge massoniche, la Commissione parlamentare antimafia traccia un quadro dei contatti tra la ‘ndrangheta e Cosa Nostra, sulla scorta delle risultanze processuali che hanno messo in luce, negli ultimi anni, i legami tra cosche calabresi e famiglie siciliane. «Per lungo tempo ’ndrangheta e Cosa Nostra – si legge nella relazione dell’Antimafia – sono state dedite alla commissione di comuni affari illeciti per potere meglio soddisfare i rispettivi interessi ma anche attivandosi per individuare nuovi referenti politici in grado di esaudire le loro richieste.Il raggiungimento di comuni obiettivi ha richiesto che venissero periodicamente organizzati dei summit sia in territorio calabrese che nel nord Italia; i rapporti venivano ordinariamente alimentati anche attraverso contatti all’interno degli istituti carcerari durante i periodi di comune detenzione. È così che nel corso del tempo si è passati da una forma di relazione tra le organizzazioni finalizzata alla commissione di singoli affari illeciti ad una forma di coesione sempre più stretta tra le stesse, in vista dell’obiettivo comune di giungere all’impossessamento dello Stato». Un tema, questo, emerso plasticamente anche dalle recenti dichiarazioni rilasciate a Report dall’ex agente del Sismi Massimo Pizza.

L’omicidio del giudice Scopelliti

Secondo quanto riferisce l’Antimafia «l’esistenza di scambi di favori tra ’ndrangheta e Cosa nostra si rivela dalla lettura delle sentenze riguardanti l’omicidio del magistrato Antonino Scopelliti, in predicato nel luglio 1991 di rappresentare la pubblica accusa nel “maxiprocesso” Abbate + 459 che si sarebbe di lì a poco celebrato in Corte di Cassazione. Già all’epoca il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, sentito nel processo per l’omicidio Scopelliti, aveva riferito che una delle prime famiglie calabresi divenute ritualmente mafiose era stata quella dei Piromalli e di essere in grado di garantire che Giuseppe Piromalli “fosse parte integrante e seguisse la dottrina di Cosa Nostra” in Calabria”. I giudici di primo grado di quel processo – in ciò non smentiti da quelli di appello – hanno in modo convergente ritenuto provati solidi legami tra Cosa Nostra e la ’ndrangheta, non solo quanto ai Piromalli ma anche con riferimento ai De Stefano-Tegano. Ulteriori elementi attestanti l’esistenza di sinergie tra la ’ndrangheta e Cosa Nostra, in particolare tra la famiglia Tegano e quella di Nitto Santapaola, si traggono dalla sentenza emessa nel 2005 nell’ambito del processo “Valanidi” nell’ambito del quale Benedetto Santapaola era stato imputato dell’omicidio di Francesco Sottile avvenuto il 1° aprile 1990 nel quartiere di Pellaro di Reggio Calabria. Secondo i collaboratori di giustizia Giovanni Riggio e Filippo Barreca tale delitto era frutto di una “cortesia” che i Tegano avevano fatto a Nitto Santapaola… È confermato come negli anni Novanta sia stata assai intensa e proficua l’attività di traffico di armi e droga svolta da esponenti della ’ndrangheta e di Cosa Nostra e come i legami tra alcuni soggetti appartenenti a tali organizzazioni criminali fossero diventati assai saldi, tanto da sfociare in veri e propri rapporti di amicizia».

Il boss dei corleonesi Totò Riina

La seconda “guerra di ‘ndrangheta”

La Commissione parlamentare antimafia si sofferma poi sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia dalle quali emerge che «i massimi vertici di cosa nostra erano intervenuti per porre fine alla “seconda guerra di ’ndrangheta”, proprio nell’ottica della reciproca convenienza. Il conflitto aveva infatti provocato circa ottocento morti creando gravi perdite economiche non solo ai calabresi, ma anche alle altre organizzazioni criminali. Per tale motivo Salvatore Riina si era risolto di intervenire al fine di porre fine alle ostilità. Secondo il collaboratore di giustizia Giuseppe Di Giacomo, nel momento in cui Riina era intervenuto per favorire un rappacificamento “si era trasferito” il sinergico modus agendi, già collaudato per le ordinarie attività criminali (traffico di armi e stupefacenti), per “diffondere quel terrorismo” al fine di poter ottenere una serie di benefici normativi per i mafiosi. Nel momento in cui il Gotha di Cosa Nostra rappresentato da Totò Riina, Luca Bagarella, Matteo Messina Denaro, i fratelli Graviano aveva deciso nel 1992 di portare il progetto stragista fuori dai confini della Sicilia aveva chiesto l’appoggio dei “calabresi”, cioè delle cosche egemoni di ’ndrangheta riconducibili ai De Stefano, ai Piromalli e ai Mancuso».  Nella relazione quindi l’Antimafia osserva «in sintesi, secondo quanto emerge dalle evidenze giudiziarie» che «può dirsi certa l’esistenza di una solida alleanza criminale fra ’ndrangheta e Cosa Nostra sin dagli anni Sessanta, poi venutasi a rinsaldare nel 1991 a seguito della ritrovata pax mafiosa nella ’ndrangheta reggina, intervenuta dopo circa sette anni di guerra che avevano lasciato sul campo centinaia di morti fra cui non solo molti capi della ’ndrangheta, ma anche esponenti di primo piano della politica reggina. Quel rapporto tra Cosa Nostra e ’ndrangheta che inizialmente si era manifestato sotto forma di condivisione di comuni affari illeciti (armi, droga, sequestri di persona) o come scambio di favori (ospitalità a latitanti, omicidi per conto degli alleati, placet alla commissione di omicidi nei rispettivi territori, scambio di killer), sia era via via evoluto fino alla condivisione di veri e propri progetti terroristico-eversivi e politici».

Il progetto stragista

Sempre citando risultanze processuali, l’Antimafia annota che «sul fronte calabrese, diversi collaboratori di giustizia hanno riferito concordemente che nell’estate del 1991 – prima delle stragi di Capaci e via D’Amelio – i vertici della ’ndrangheta calabrese si erano riuniti in contrada Badia, tra Nicotera e Limbadi nella zona di competenza dei Mancuso, per discutere delle proposte stragiste di Cosa Nostra e, per usare le parole di uno dei collaboratori, « ci fu una stretta stretta tra i capi là, Franco Coco, Giuseppe De Stefano, Pino Piromalli e coso… e Nino “testuni”, Antonio Schettini». A quella di contrada Badia era, poi, seguita nell’estate del 1992 – si legge ancora – una nuova riunione a Nicotera Marina), sempre sotto il patrocinio di Luigi Mancuso, il quale «aveva illustrato ai capi famiglia partecipanti – oltre cinquanta, secondo quanto dichiarato da un collaboratore – la proposta di adesione alla strategia stragista di Cosa Nostra». Una proposta che non aveva trovato unanimità nella ‘ndrangheta calabrese: «L’atteggiamento di Luigi Mancuso era apparso ambiguo in quanto da un lato aveva fatto gli onori di casa illustrando tale richiesta, dall’altro aveva invece manifestato la sua contrarietà poiché riteneva che il coinvolgimento nella strategia stragista non avrebbe portato grandi vantaggi a un’organizzazione come la ’ndrangheta che non gradiva di essere oggetto di attenzione mediatica. A dire del collaboratore Franco Pino – è scritto nella relazione della Commissione parlamentare – Luigi Mancuso riteneva rischioso “schierarsi diciamo apertamente, come se fosse stata una guerra in campo aperto”, spiegando che “in Calabria c’era più quella cosa di nasconderci, di… di mimetizzarci, di affrontare i processi, di… di vincere le cose ricattando le persone”. E ancora: «Alle riunioni “preparatorie” svoltesi nel 1991 e nel 1992 in un’area sotto il controllo dei Mancuso, in cui si era discusso tra i capi della ’ndrangheta in ordine alla proposta stragista, erano seguite altre riunioni nella Piana di Gioia Tauro in data prossima alla realizzazione degli agguati ai carabinieri (Antonino Logiudice, Consolato Villani, Gaetano Albanese) oggetto del processo “’Ndrangheta stragista”, fino all’ultima riunione del novembre 1993 della quale ha riferito Giuseppe Calabrò, soggetto da cui era partito l’ordine di uccidere dei carabinieri in esecuzione del patto stragista concluso tra la ’ndrangheta e cosa nostra. Tutte le riunioni di cui hanno parlato i collaboratori si erano svolte nei territori del mandamento tirrenico e furono promosse dalla triade Mancuso-Piromalli-Pesce che aveva convocato gli esponenti apicali delle diverse ‘ndrine in luoghi posti sotto il loro controllo. Ciò – prosegue la relazione dell’Antimafia – in quanto Cosa Nostra aveva indirizzato proprio ai “tirrenici” la proposta, in forza degli stretti rapporti con i Piromalli, insistendo affinché fosse discussa e approvata. In sintesi, emerge l’adesione al progetto della ’ndrangheta calabrese, all’epoca capeggiata dalla cosca Piromalli, e dell’ala milanese, capeggiata dai Coco Trovato-Papalia e da sempre vicini a Cosa Nostra nei suoi propositi stragisti, mentre una posizione ambigua, o comunque non registrata in modo univoco dai dichiaranti, era stata assunta inizialmente dai De Stefano, che in seguito avevano fornito la loro adesione per il mandamento di centro. Secondo quanto emerso nel processo “‘Ndrangheta stragista”, il sostegno al disegno violento ideato ed avviato in Sicilia dai corleonesi per “chiudere” la trattativa con lo Stato, sarebbe stato fornito dalla ’ndrangheta attraverso il compimento di tre agguati ai danni dei carabinieri. In contemporanea a tali eventi, cosa nostra aveva deciso e progettato di elevare il livello dello scontro con lo Stato, uccidendo in un solo attentato decine di carabinieri in servizio presso lo Stadio Olimpico di Roma, a conferma della comune ideazione e deliberazione criminosa con i “calabresi” degli agguati contro soggetti appartenenti all’Arma». (redazione@corrierecal.it)

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