ROMA Dietro alcune “pompe bianche”, quelle che vendono benzina a prezzi convenienti, potrebbero esserci le attività di gruppi criminali, in certi casi vicini alla criminalità organizzata, o quantomeno organizzazioni molto capaci nel contrabbando di carburanti, nell’evasione fiscale e nel riciclaggio di denaro sporco. A lanciare l’allarme è l’associazione Libera fondata da don Luigi Ciotti che afferma che nel corso degli ultimi anni, si è assistito al progressivo interessamento delle mafie al settore del commercio degli idrocarburi, sia all’ingrosso che al dettaglio come denunciato nell’ultima relazione della Direzione Nazionale antimafia 2021.
Al tavolo di quelle che vengono chiamate le “petrolmafie”, si puntualizza, come evidenziato anche dalle inchieste della magistratura, «siede il Gotha dei clan criminali, dai Moccia ai Polverino in Campania, clan Santapaola-Ercolano in Sicilia, esponenti dei Casamonica nel Lazio e Piromalli, Labate in Calabria».
«Mentre si accende lo scontro tra Governo e distributori per il mancato taglio delle accise sul carburante – commenta Libera e lavialibera – e sale la preoccupazione per l’aumento dei prezzi alla pompa, torna d’attualità il tema delle pompe bianche. Un settore non negativo in sé, ma che secondo la Dna “è vulnerabile” a interessi criminali. Ancora di più dopo la crisi».
Sul fenomeno Libera già nel 2021 con un’inchiesta pubblicata sul suo periodico Lavialibera aveva lanciato l’allarme. Dai dati dell’Unem, nel 2018 erano circa 5.400 gli impianti di pompe bianche, cinque volte quelli esistenti nel 2007. È un settore complicato – scrive nell’inchiesta lavialibera – richiede capitali, relazioni e competenze non comuni: bisogna conoscere il prodotto, i fornitori, l’andamento del mercato e le complesse regole del fisco. Serve gente che investa molti soldi. Soprattutto, servono professionisti ed esperti del settore, quei colletti bianchi che fanno parte della zona grigia. Il gioco, però, vale la candela. Il settore dei carburanti appare, si aggiunge, particolarmente redditizio. «L’infiltrazione mafiosa nel settore della commercializzazione degli idrocarburi è uno degli aspetti più significativi dell’evoluzione dei gruppi criminali», sottolineava l’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho. «Il guadagno è del 50 per cento su quello che è stato investito». Investi 1.000 euro, ne guadagni 500. E c’è un altro fattore, non trascurabile. «il netto abbassamento del rischio rispetto al profitto, ad esempio, rispetto a ciò che riguarda il traffico di sostanze stupefacenti». Un giro d’affari enorme – denuncia Libera e Lavialibera – le cui stime sono prudenti e datate: la fotografia più efficace e autorevole è quella “scattata” dal Procuratore Repubblica di Trento, Sandro Raimondi, nel corso di una audizione del novembre 2019 alla Camera nella quale affermava che «il traffico illecito di prodotti petroliferi ha assunto una rilevanza estremamente pesante e pericolosa anche per il controllo da parte della criminalità organizzata. Il 30% del venduto sfugge all’imposizione fiscale per un valore di circa 10-12 miliardi di euro».
Ma dove finisce il carburante di contrabbando? Il più delle volte – scrive Libera e Lavialibera – ad alcuni distributori indipendenti, le cosiddette “pompe bianche”, slegate dai circuiti delle multinazionali e capaci di fornire benzina a prezzi inferiori rispetto ai concorrenti. In alcuni casi sono proprietà delle stesse organizzazioni criminali che in questo modo non solo riciclano denaro, ma si procurano ulteriori guadagni dalla vendita al dettaglio. Molti sono i trucchi utilizzati per contrabbandare carburanti in Italia evadendo le tasse (quasi il 65 per cento del prezzo alla pompa se ne va in imposta sul valore aggiunto e in accise). Nella maggior parte dei casi – si legge su Lavialibera – il prodotto energetico proviene dalla Polonia, dalla Serbia, dalla Bosnia Erzegovina e dall’Ungheria. Il greggio di contrabbando arriva anche dal Medio Oriente, in quelle zone un tempo occupate dall’Isis che ricorreva al contrabbando di petrolio per finanziarsi, e dalla Libia, come rivelato dall’inchiesta Dirty Oil.
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