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La ricerca (infinita) della verità e il pensiero “forte” di Vattimo per la sua San Giovanni in Fiore

Il profilo dell’intellettuale scomparso nei giorni scorsi. Gli sberleffi al centrosinistra, la Sila come rifugio e il legame con Gioacchino

Pubblicato il: 22/09/2023 – 18:00
di Emiliano Morrone
La ricerca (infinita) della verità e il pensiero “forte” di Vattimo per la sua San Giovanni in Fiore

«L’uomo è ciò che mangia, ma soprattutto quel che beve». Così Gianni Vattimo, scomparso il 19 settembre scorso, trasformò il celebre motto di Ludwig Feuerbach, bevendo un calice di rosso della Sila. 
Di origini calabresi e fama mondiale, il filosofo torinese era autoironico, alleggeriva i discorsi, amava scherzare e porsi con umiltà. Per esempio, ad Acquappesa chiese di non sedere a tavola di fronte al suo collega Karl-Otto Apel. «Rischio che mi interroghi sul Tedesco», argomentò con un sogghigno. Davanti agli amici intimi, Vattimo si definiva «coglione sinistro», memore del verso, di Giorgio Gaber, «il politico è sempre meno filosofo e sempre più coglione». Un giorno, poi, dichiarò d’aver fondato il «Movimento europeo rottamazione D’Alema», giocando sull’acronimo. Un’altra volta comprò la propria autobiografia in cui era ritratto in copertina, il libraio gli disse che il testo andava a ruba e che l’autore era «il più grande filosofo vivente». Vattimo rispose: «Sono contento per lui, ma non lo conosco». 
Oggi è diffusa la convinzione che i filosofi si limitino a contorsioni mentali, che manchino di senso della realtà, che siano inconcludenti e che il loro lavoro non serva affatto. Il dominio incontrastato della tecnica ha esautorato la filosofia e la politica, delegittimata dal mito negativo della «casta». L’onnipresenza della tecnica ha spianato la strada agli studi di fattibilità, all’analisi del rapporto costi/benefici quasi per ogni deliberato istituzionale. La tecnica, osservava Vattimo, è diventata lo strumento persuasivo, il paravento, il verbo unico del potere reale. Perciò non è ammessa né gradita una visione, una ricostruzione d’insieme di fatti, contesti e problemi. L’idolatria verso la tecnica – ammoniva il filosofo nel volume “Nichilismo ed emancipazione” – impedisce il confronto democratico tra i destinatari delle scelte pubbliche, serve ad escluderne l’opinione sugli interventi d’impatto territoriale. Allora la verità, sosteneva Vattimo, si manifesta nei momenti autentici dell’esistenza, in cui cadono le barriere dell’individualismo e della volontà di potere. Per il resto, la verità fugge e si allontana, mentre il progetto politico – avvertiva – scompare dal discorso pubblico e dall’orizzonte comune. 
Filosofo e politico del post-moderno, Vattimo ebbe piena contezza dell’inattualità di questi due mestieri, cui non rinunciò mai, seppure consapevole del condizionamento delle masse da parte del sistema capitalistico, dell’impotenza dell’intellettuale contemporaneo, dell’eletto provvisto di sofisticati strumenti interpretativi. Nonostante la tenacia, però, egli esasperò la propria ironia, talvolta perfino controproducente. Nei suoi dieci anni al Parlamento europeo, prima con i Ds, dopo con l’Italia dei valori, Vattimo avrebbe potuto fare e dare tanto. Ma si bloccò a causa delle proprie debolezze: l’inguaribile istinto provocatorio, la paura dell’abbandono e il suo non essere padre, da cui scaturì la propria generosità sconfinata, irrefrenabile, nociva per sé e diseducativa verso persone a lui vicine.


Agli inizi degli anni Duemila, in antitesi con la linea dei Democratici di sinistra, il filosofo ne sbeffeggiò i vertici. Poi esplose un conflitto dentro la Quercia e nel 2009 Vattimo entrò nell’Italia dei Valori, provando a bilanciare il proprio garantismo con il giustizialismo di Antonio Di Pietro, abile ad attrarre intellettuali e movimentisti di sinistra, da Nicola Tranfaglia a Pancho Pardi, da Beppe Giulietti a Maurizio Zipponi, cui l’ex pm fece accettare l’improbabile convivenza politica con l’economista Antonio Borghesi, fra gli antesignani dell’abolizione di Province e vitalizi, con il centrista Leoluca Orlando e con l’iconoclasta Beppe Grillo. 
In quell’ambiente politico tanto variegato, Vattimo riacquistò le motivazioni perdute a causa della rottura con i maggiorenti dei Ds, che il professore aveva bollato come «largamente inciucisti, immobili e sempre pronti al patto col diavolo». 
Ma in precedenza, nel febbraio 2005, il filosofo si era candidato a sindaco di San Giovanni in Fiore, sostenuto da un gruppo di giovani indipendenti animati da un forte senso di giustizia e dal desiderio di riscatto collettivo, dall’idea – ingenua ma genuina – che da lì sarebbe partita la renovatio mundi profetizzata da Gioacchino da Fiore e ripresa da Dante Alighieri. La lista del filosofo, denominata “Vattimo per la città”, aveva contestato usi e costumi dei partiti e presentato un programma di 100 proposte, basato sulla partecipazione popolare al governo civico, sul valore di natura e cultura, sull’investimento pubblico per educare i ragazzi al teatro, all’arte, alla bellezza. Vattimo era divenuto il centro dell’attenzione e della curiosità generale: nelle riunioni, per strada, a tavola e nelle iniziative elettorali, seguite anche da interessati provenienti da altri Comuni della Calabria. Il professore aveva conquistato la fiducia di numerosi cittadini, affascinati dalla sua comunicativa e grati per il “sacrificio” della candidatura a perdere. Il filosofo era rimasto appagato da quel progetto politico costruito dal basso, malgrado la sconfitta elettorale inflitta dal centrosinistra. Ed era restato per un po’ nel Consiglio comunale di San Giovanni in Fiore, prima di dimettersi e, sulla base di quell’esperienza di civismo ante litteram, presentarsi da indipendente alle Europee del 2009, ottenendo il seggio contro ogni previsione.


Nel suo secondo mandato da parlamentare europeo, Vattimo viaggiò senza sosta in Italia e all’estero. Incontrò Fidel Castro e Ugo Chavez, che lo accolsero con grandi onori, e in diverse università dell’America Latina parlò a centinaia di studenti del pensiero debole, di Hegel, Nietzsche, Heidegger, futuro della religione, comunismo ermeneutico e postmodernità. Condusse con passione ed entusiasmo il proprio impegno filosofico e quello politico, senza mai separarli e con un pensiero sempre rivolto alla “sua” San Giovanni in Fiore, in cui tornò più volte per distendersi, rigenerarsi e respirare l’aria silana e dell’abate Gioacchino. Come nel luglio 2013, in cui, stanco del caldo afoso di Roccella Ionica e provato da un dolore acuto al nervo sciatico, scappò in Sila per dormire al fresco e trovare un medico disponibile, il dottore Vincenzo Mauro, che gli riferì d’averlo «visto in tv da Gigi Moncalvo, in una serie di confronti memorabili con Vittorio Sgarbi». 
Adesso San Giovanni in Fiore piange per la dipartita di Vattimo, il consigliere comunale del Pd Domenico Lacava ha scritto che «dovremmo essergli tutti grati per essersi interessato a noi» e la sindaca Rosaria Succurro ha annunciato che il Comune intitolerà una strada al filosofo, «immenso e uomo di profonda onestà intellettuale– secondo il deputato Alfredo Antoniozzi, alla Camera vicecapogruppo di Fratelli d’Italia – che probabilmente avrebbe meritato maggiore rispetto negli ultimi mesi della sua vita».

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