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Intimidazioni ed estorsioni, lo strapotere del boss Nino Accorinti all’ombra dei Mancuso

Nelle motivazioni della sentenza d’appello, il profilo del capo della cosca di Briatico. Ad un imprenditore: «Adesso sai quello che devi fare»

Pubblicato il: 09/11/2023 – 14:40
di Giorgio Curcio
Intimidazioni ed estorsioni, lo strapotere del boss Nino Accorinti all’ombra dei Mancuso

VIBO VALENTIA Un’inchiesta che ha consentito alla Distrettuale antimafia di Catanzaro di ricostruire una serie di episodi legati alle attività e alle pressioni criminali, sul territorio della provincia di Vibo Valentia, da parte di due distinte organizzazioni ‘ndranghetiste: la cosca Mancuso, facente capo a Cosmo e a Pantaleone “Scarpuni” (cl. ’61) e la cosca Accorinti-Bonavita-Melluso, facente capo ad Antonino “Nino” Accorinti, attiva a Briatico. Secondo quanto è emerso dall’indagine “Costa Pulita”, infatti, le ’ndrine sarebbero riuscite ad operare anche con la sottomissione di amministratori locali e ad approfittarsi di un disastro alluvionale, nell’inverno tra il 2010 e il 2011, per garantire alla cosca lavori edili.

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Il boss Nino Accorinti

Tra le figure al vertice di questo sodalizio, gli inquirenti (e i giudici) individuano Nino Accorinti, classe ’56, condannato a 12 anni di reclusione nel processo d’appello con sentenza emessa a maggio di quest’anno. Il boss, insieme al defunto Francesco Giuseppe “Pino” Bonavita e Leonardo Melluso, quest’ultimo condannato a 6 anni di reclusione. Nino Accorinti, dunque, avrebbe agito sul territorio grazie alla sua «forza di intimidazione» garantita dal solido vincolo associativo e la dipendenza gerarchica con la cosca Mancuso mettendo in condizione di «assoggettamento e di omertà» il territorio.

Il legame con i Mancuso

Una posizione di forza che ha consentito al boss di «commettere delitti quali estorsione, detenzione e porto illegale di armi, aggressioni, minacce, danneggiamenti» oltre che «intestazioni fittizie di beni e società» per acquisire, direttamente o attraverso ditte intestate a prestanome «la gestione o comunque il controllo di attività economiche, concessioni, autorizzazioni, appalti e servizi pubblici, anche con ingerenze e condizionamenti nella pubblica amministrazione, e comunque per realizzare in favore dei propri affiliati, profitti ingiusti». Nelle motivazioni della sentenza d’appello, sono riportati alcuni episodi significativi che hanno consentito di ricostruire il quadro accusatorio – confermato nel processo – nei confronti del boss di Briatico. Tra questi, l’intimidazione ai danni di Francesco Giuseppe Bisogni. Alla base c’era, infatti, c’era la richiesta di 20mila euro da parte di Nino Accorinti per «porre termine ad un contenzioso», salvo ottenere una risposta negativa dalla vittima.

«Adesso sai quello che devi fare»

Due telefonate anonime, la collocazione di una bottiglia in plastica piena di liquido infiammabile e di un accendino nonché con l’effrazione del finestrino dell’autocarro: nel mirino del boss Nino Accorinti, così come ricostruito dagli inquirenti e nel corso del processo, era finito anche l’imprenditore Salvatore Barbagallo, impegnato nei lavori di realizzazione di un pozzo d’acqua potabile nella frazione San Costantino, a Briatico, dopo essersi aggiudicato l’appalto per il valore di lire 47.371.500. Accorinti avrebbe costretto l’imprenditore «ad abbandonare i lavori per i quali si era aggiudicato l’appalto, così conseguendo l’ingiusto profitto di farli eseguire a ditte compiacenti, alterando la libera concorrenza sul mercato, con pari danno per la vittima». «(…) ma tu non lo sai che questo pozzo non lo devi fare tu? adesso sai quello che devi fare». (g.curcio@corrierecal.it)

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