«Il cane ha la bocca maledetta, / la capra ha maledetta pure la bocca. /Nella piazza disselciata e deserta/ un tubo di grondaia ai piedi nudi/ d’un bimbo scarica l’ultima pioggia. /La nebbia va. C’è fame, anche di Cristo. /Fra stracci, uomini, donne vivono/ perché la lenta morte/ non sia suicidio».
Questi versi furono scritti nel 1958 dal giornalista-scrittore Sharo Gambino (1925-2008), un autore calabrese dimenticato, forse rimosso, ora meritevole di essere riconsiderato.
Iniziamo dal nome Sharo (si pronuncia Sciaro). Quando l’intervistai nel 2004, prima che morisse, glielo chiesi e mi rispose: «Mio padre, che era stato in America, volle mettere questo tocco di esterofilia ma il fascismo vietava i nomi stranieri e all’anagrafe lo trascrissero senza l’acca. Però una guardia municipale, Peppe Vavalà, amico di mio padre faceva circolare i certificati con l’acca».
Aggiungendo: «Lo scrittore Domenico Zappone di Palmi mi scongiurò di togliere l’acca perché sembrava un segno di snobismo. Insomma, me lo porto dietro, ho cercato di disfarmene ma non c’è stato verso. Una volta inviai degli articoli firmandoli Saro Gambino, non vennero pubblicati e non capivo il perché. Poi ebbi la folgorazione: forse è colpa dell’acca che ripristinai immediatamente e tutto si mise a posto».
Nel 1958 Sharo Gambino, chiamato dall’Unione Nazionale per la Lotta contro l’Analfabetismo, accettò di creare e dirigere un Centro di Cultura Popolare nella sperduta contrada Cassari di Nardo di Pace, alle pendici delle Serre vibonesi che declinano nel reggino dalla parte pedemontana della Vallata dell’Allaro, luogo di mitologia e di dannazione per la miseria che lacerava le carni di quelle popolazioni nel dopo-guerra.
Lo ricordò lo stesso autore in un pamphlet del tempo, “Cassari” appunto, «Quella fu una delle rare, rarissime, volte che fermai sulla carta la mia emozione ricorrendo al verso. Non diversamente mi sarebbe riuscito di fotografare una situazione disperata come quella con cui ebbi un impatto drammatico, capace di mutare i miei pensieri sulla vita e sulla società, sulla religione anche».
Le tragiche alluvioni del 1951 e 1953 avevano dato il colpo finale, tant’è che la frazione Ragonà divenne, per motivi di sopravvivenza, un’enclave della provincia reggina in territorio catanzarese. A chi ha visto l’inferno in faccia non si poteva certo chiedere di parlare dei difetti dei calabresi.
E, infatti, Sharo mi disse: «Erano saliti dalla valle dell’Allaro portandosi dietro, insieme alle povere suppellettili, anche il bagaglio di abitudini, credenze, superstizioni. Credevano in Dio, nella Madonna, nei Santi, negli angeli e negli arcangeli, ma credevano anche nel diavolo che appariva sotto forma di capra o cane o serpente, negli spiriti che a mezzanotte si mettevano in fila e in processione andavano in giro per le vie del mondo e chi gli intralciava il cammino perdeva la memoria, o gli morivano parenti e animali. Sapevamo le preghiere e le litanie dei santi, ma anche le parole per compiere riti magici e scoprire tesori nascosti nei tempi antichi dai briganti nelle viscere della terra in determinati posti indicati da particolari segni. Credevano nel malocchio che alcune donne capaci levavano eseguendo rituali magici, e legavano la bocca del lupo recitando particolari preghiere così non gli avrebbe mangiato le capre».
Quella la miseria della Calabria osservata dal giovane maestro elementare Sharo Gambino che insegnava la sera, col favore di una lampada a petrolio, ricordando: «a quegli stanchi contadini, con le stigmate della sofferenza e dei patimenti in volto, con quelle mani nere e callose piagate a volte, che trattavano la penna, la matita con la stessa grazia con cui trattavano la zappa, la scure, la roncola, presero a sillabare, increduli d’esserci arrivati, le parole stampate sulla pagina del libro, a tracciare, sotto la mia dettatura, le prime parole sul foglio del quaderno».
Quella fu la scuola di comunicazione frequentata dallo scrittore serrese che, in 57 anni di militanza pubblicistica, sfornò 33 pubblicazioni e tonnellate di pezzi poi conservati (speriamo che ancora lo siano) nelle teche della Rai di Cosenza e nelle emeroteche e biblioteche nazionali regionali a testimonianza di un fecondo mezzo secolo di produzione giornalistica e letteraria. Uno degli allievi di quell’epopea gli confessò una volta: ”Ora se devo scrivere una lettera anonima non mi devo più rivolgere a mia figlia”. «Feci finta di non avere sentito», rispose Sharo.
Gambino s’è occupato di ‘ndrangheta quando nessuno la conosceva o faceva finta di non conoscerla. Mi disse: «il fenomeno, a partire dal fascismo e dai primi anni di democrazia, lo ritennero cosa di malavitosi, di picciotti di campagna, non troppo pericoloso mentre poi… specialmente con l’ingresso dei traffici di droga…».
Si occupò anche del bandito Castagna (nel 1955, a Presinaci di Rombiolo uccise cinque persone) lasciando questa testimonianza: «Col processo Castagna, che si tenne nella Corte d’Assise di Vibo Valentia e poi con il summit di Polsi che era la Cassazione della ‘Ndrangheta di allora, mi venne da fare una riflessione comparativa tra i due eventi, dal caso isolato di banditismo all’organicità del fenomeno mafioso. Ho studiato e riflettuto molto, aiutato in questo dall’avvocato Francesco Tassone, direttore di “Quaderni Calabresi”. Pensi che Tassone era presidente del Tribunale di Vibo e si dimise dalla magistratura perché non sopportava che la giustizia fosse ingiusta. Era troppo sensibile e si mise a fare l’avvocato».
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