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Lacorazza: «Aree interne? Finora solo un approccio compensativo»

Il presidente ed ideatore della Fondazione “Appennino Ets” sull’analisi delle zone periferiche chiede di «cambiare il punto di osservazione»

Pubblicato il: 03/03/2024 – 6:57
di Roberto De Santo
Lacorazza: «Aree interne? Finora solo un approccio compensativo»

LAMEZIA TERME Vittime di un modello di sviluppo che ha premiato una modernità urbanocentrica. Un sistema che ha tagliato quelle opportunità di crescita basate su strategie economiche e sociali diverse ed altre, finendo per incrementare processi ancor più accelerati di spopolamento. Così le aree interne sono state considerate più un problema che una risorsa per l’Italia. Nonostante costituiscano circa i tre quinti del territorio nazionale e siano abitate da un terzo della popolazione.  Ancor più in Calabria dove ben l’80% dei comuni si trova nelle zone periferiche in cui vive la metà dei cittadini.
La mancata coesione di queste aree con il resto del territorio finisce per far scivolare pezzi importanti dell’identità collettiva – che è anche storia ed economia dell’intero contesto – verso un punto di non ritorno. E la soluzione per superare questo processo che sembra essere divenuto irreversibile non può essere di carattere compensativo – basato cioè sull’invio di risorse per finanziare progetti a pioggia – ma di inversione del paradigma di strategia di politica economica. Partendo però dalla conoscenza diretta delle realtà e vivendone il contesto. È uno degli obiettivi che si sta ponendo la Fondazione Appennino Ets che da alcuni anni realizza progetti culturali e sociali per lo sviluppo del territorio delle aree interne e per la mitigazione del rischio derivante dai cambiamenti climatici.

E lo fa attraverso un approccio multidisciplinare ed approfondito in linea con il percorso avviato dal suo cofondatore (assieme al fratello Gianni) e presidente Piero Lacorazza.  Classe 1977, giornalista e già presidente Provincia di Potenza è tra i protagonisti nazionali di questo percorso. Sfociato da ultimo nel volume “Comunità Appennino” presentato nei giorni scorsi ad Amantea. Seconda tappa, dopo quella di Potenza, del tour di presentazione del volume, che toccherà anche la Campania e il Molise, fino a raggiungere l’Emilia Romagna, la Lombardia e il Piemonte. Un volume denso di spunti per affrontare il tema delle aree interne e contribuire a «Superare “l’internità”» come recita anche il sottotitolo del libro.

Piero Lacorazza, in uno degli incontri promossi in Italia sul tema delle aree interne

Come Fondazione state promuovendo una nuova ipotesi di sviluppo delle aree interne. In cosa consiste il vostro progetto ed in che modo potrebbe coinvolgere anche la Calabria?
«Non so se definirla nuova o giusta. Sentiamo di avere l’energia per scalare la cima che tiene uniti più versanti, in particolare due: quello dell’anima e quello della meccanica. Potremmo dire che con il nostro progetto puntiamo a salire verso una vetta in cui si incontrano umanesimo e scienza e da cui si scrutano orizzonti mediterranei. Al vertice si compie la moltiplicazione delle opportunità per scegliere quale pendio prendere e poi scegliere la soluzione migliore. Una moltiplicazione tra la base del pensiero e l’altezza rappresentata da una concreta sperimentazione sul posto. Fondazione Appennino rappresenta la base per altezza con la collana di libri “Civiltà Appennino”. Una collana di testi – pubblicati prima con la casa Editrice Donzelli e ora con Rubbettino -, a cui si affianca la webzine civiltaappennino.it che ha messo insieme circa 100 autrici e autori, le collaborazioni con scuole, università ed enti di ricerca. Ma è anche una progettazione per intercettare risorse pubbliche e private, e mettere a terra l’organizzazione e la gestione dei progetti. Fondazione è inoltre il vissuto in un piccolo paese, Montemurro, in cui in un palazzo di 100 anni abbiamo una struttura di accoglienza di comunità e una residenza artistica. E le parole scritte e raccolte nei libri nascono e si trasformano in progetti: dal Premio “Appennino 2030Fest” al Festival “Appennino Mediterraneo”. Eventi che si realizzano nei mesi d’autunno e d’inverno quando le luci dell’agosto si spengono nei paesi. Ma quel che facciamo è anche cooperazione transnazionale e marketing turistico, così come ricerca e concreta applicazione della tecnologia blokchain nel campo agricolo. Credo che quindi tante sarebbero le opportunità per coinvolgere la Calabria».

Nell’ultimo volume che ha curato, parla di “internità”. Una sorta di concetto anche filosofico che vive chi abita nelle zone interne delle regioni. Ma come si rompe quella che sembra essere più una condizione di marginalità?
«Insieme a mio fratello Gianni stiamo provando a raccontare le cose, a contribuire a strutturare un pensiero ricercandolo e sperimentandolo ogni giorno. Questa è forse la storia nuova: una Fondazione, la nostra, è un’impresa sociale. Per noi l’impegno in questa logica è al tempo stesso la stesura di un libro o prestare servizio ad un tavolo nella nostra “Taverna Appennino”. Scrivere e spostare le sedie per gli eventi del nostro Festival o del nostro Premio. Uscire dalla marginalità è stare con la testa nel mondo e i piedi per terra. E quanto sono più forti le radici, tanto l’albero resiste al vento della modernità con la consapevolezza che anche questa è aria che serve per vivere. Questo tocca ad ognuno di noi, alla responsabilità di ciascuno e al protagonismo delle comunità. Gli Jarabedepalo cantavano che depende «da che punto guardi il mondo tutto depende». Se guardiamo le aree interne prettamente dal punto di vista del mercato, questi luoghi sono destinati al fallimento, appunto al “fallimento di mercato” e quindi ai margini. Se invece si osserva la vita e la società non relegandola ad un esclusivo indice di quantità, le cose possono cambiare: essere guardate assieme e in modo interconnesso. Occorre, dunque rovesciare il piano e cambiare il punto di osservazione. Esiste un sistema in cui i cosiddetti centri e margini hanno un unico destino perché il PIL non misura l’equità, la sostenibilità, la felicità. Il PIL non è sufficiente per tracciare la rotta del benessere. È necessario quindi ricercare nuovi punti di equilibrio nelle transizioni ecologiche e digitali tra spazi troppo pieni, forse non autoriformabili, e contesti troppo vuoti forse non ripopolabili».

L’ex ministro per il Sud e la coesione territoriale Fabrizio Barca

Su questo tema, la programmazione pensata dall’allora ministro Fabrizio Barca sembrava aver aperto una strada nuova. Ma la Calabria, come anche altre regioni, vedono incrementare il loro divario e le aree interne sono fortemente a rischio di spopolamento. Cosa non ha funzionato?
«Bisogna riconoscere a Fabrizio Barca l’apertura di una strada nuova. E ringraziarlo per aver aperto un varco importante. Ma forse prima ancora che una riflessione sulla Strategia per le aree interne (Snai) dovremmo scavare più in profondità. Anche la Snai era dentro politiche, quelle del Governo Monti, forse di “salvataggio”, di necessaria austerity (?) che oggettivamente comprimevano – in una sorta di “compensazione” – l’attenzione per le aree interne. Il Governo Monti è l’esecutivo che ha ideato la Snai ma ha anche varato il decreto che ha abolito le province. Un decreto peraltro poi dichiarato incostituzionale. Dunque da una parte la Snai e dall’altra lo smantellamento di un sistema di governo territoriale che era precedente alle istituzioni delle Regioni. I rigurgiti di un centralismo, resi ancora più forte da un sistema elettorale che ha di fatto ridotto il governo del territorio, non sono migliori di un autonomismo spinto e velleitario in un mondo globale. Potrei citare esempi fino alla noia, contraddizioni che hanno reso le politiche per le aree interne “compensative” per non dire “compassionevoli”. Se penso ai diritti di cittadinanza in pancia alla Snai (istruzione, salute e mobilità) siamo proprio ad un esito “risarcitorio”, anche per molti aspetti inefficace, poiché mentre si mostrava attenzione e si provava a mettere dentro processi dal basso qualche quattrino, le politiche ordinarie hanno ristretto i parametri e la spesa con l’idea di risparmiare ed efficientare. Oggi di nuovo si persegue questa strada, in un contesto globale e Mediterraneo che hanno accentuato le crisi. Dentro l’inverno demografico che morde i territori siamo di fronte al più imponente Piano d’investimenti per ridurre i divari territoriali rappresentato dal Pnrr, ma con un nuovo patto di stabilità e crescita che bussa alle porte e che prevede una stretta alla spesa pubblica sempre sul sentiero dell’austerità. Oggi ci si gongola di queste risorse, ben sapendo che arriverà una stretta che forse renderà difficile realizzare progetti. Inoltre c’è un’altra contraddizione: E mai possibile discutere, anche in presenza di questa legge elettorale per le elezioni dai parlamentari, su tendenze di assetto costituzionale, istituzionale e normativo che oscillano tra premierato ed autonomia differenziata?».

Sempre più giovani scelgono di lasciare le aree interne per cercare un futuro altrove

Secondo il vostro punto di osservazione quali sono le priorità da mettere in campo quanto meno per tentare di ridurre l’esodo dai territori?
«Innanzitutto di retorica ed ovvietà ne basterebbe anche la metà. Quando si parla di ripopolamento dei territori si tendono a confondere le persone con i cinghiali. E anche per cinghiali peraltro ci sono voluti decenni. Noi siamo dentro un inverno demografico ed una tendenza generale di spostamento delle persone dalle aree rurali alle città. Dobbiamo evitare di pensare di risalire il fiume al contrario perché così rendiamo prigioniero il pensiero e sbagliamo le basi per una nuova programmazione. Noi dobbiamo fare i conti con un primato della geografia – accompagnata dalla storia – e una lettura della demografia. Il Mediterraneo è il luogo della definizione di un nuovo ordine mondiale e noi non possiamo starci solo con le “repubbliche marinare”, ma dobbiamo posizionarci con l’Europa – consapevole che non ha più la forza del vecchio continente – con paesi.  Abbiamo bisogno di una dimensione politica sovranazionale più forte e di una Italia con meno divari, meno diseguaglianze e più unità. L’Italia è più debole nel Mediterraneo se perde la sua vocazione europeista e la sua unità nazionale non solo intesa come nord e sud ma anche come sistema adriatico e tirrenico in cui l’Appennino sia cerniera e non una landa desolata. I vuoti così come le fragilità contaminano il sistema, rendendolo più debole. Prima di fare sarebbe opportuno pensare, tanto alla geografia che alla demografia. È chiaro però che mentre si pensa il malato non può morire, vi è anche la necessità di un laccio emostatico che rallenti l’emorragia. Ad esempio la fiscalità di vantaggio è una risposta immediata così come nel medio termine pensare che le “cure paesane”, una proposta di Fondazione Appennino, siano “osservate speciali” un po’ come le “cure terminali” che a determinate condizioni possono essere sostenute anche dal Sistema Sanitario Nazionale. Idee e proposte sono nella nostra ricerca, produzione editoriale e sperimentazione concreta sul campo».

Il modello di turismo da promuovere nei territori interni prevede un approccio diametralmente opposto a quello di massa

Si parla tanto di turismo come ipotesi di sviluppo di queste aree. Nonostante le tante risorse investite o a disposizione del Sud per incentivare queste soluzioni, però la situazione non è cambiata. Cattiva gestione delle somme o c’è dell’altro?
«Anche in questo caso è meglio chiarire il contesto e l’analisi del comparto. Si guardi ai dati del turismo in Italia. Il contributo (indotto compreso) al PIL è circa il 13-14%. Ma c’è chi mangia due polli e chi neanche uno: la media è uno a testa. Questo dato è molto spinto da alcuni contesti territoriali fino al punto di parlare di overtourism. Possiamo quindi intuire che non dappertutto è possibile fare turismo e la sua relazione con le aree interne ed appenniniche andrebbe valutata e pesata meglio. Altrimenti si mettono un sacco di quattrini, si alimenta un enorme aspettativa ma con una resa molto bassa e con ulteriori elementi di sfiducia. Così come credo occorre evitare di disegnare un Sud che sia gomorra o paesologia. Per carità Saviano e Arminio offrono sguardi di denuncia e di poesia, credo utili e al tempo stesso dialettici. Ma dobbiamo anche andare oltre l’autoflagello della cattiva gestione (al Sud come altrove) e della rassegnazione come anche dell’autocontemplazione. A leggere l’andamento del PIL pro-capite in termini reali dal 2001 al 2019 in tutte le Regioni dell’Ue – in tre cicli della programmazione settennale dei Fondi Strutturali e di investimento europei (SIE) il 2000-2006, il 2007-2013 e il 2014-2020 (in parte) – siamo ad una dichiarazione di fallimento della politica di coesione non solo per l’Italia, ma anche per altri Paesi dell’Europa meridionale, in modo particolare la Grecia, la Spagna e il Portogallo. Perché non partiamo da questa riflessione che, per esempio, apra una traccia su una idea di nuovo “patriottismo” attraversato da mediterraneità ed europeismo? Perché senza un nuovo pensiero, appunto, il fare potrebbe essere un ulteriore fallimento tra consuetudini e pigrizie».
 

Una delle tante frane che ha colpito il territorio calabrese

Queste aree fanno i conti anche con alcune fragilità del territorio. Rischio idrogeologico e sismico. Anche qui le risorse non sono mancate. Eppure.
«Gli investimenti in prevenzione non sono mai troppi. E credo siano mancati. E continueranno a mancare perché oggi la sicurezza di un territorio vive ulteriori criticità. Pensiamo ai cambiamenti climatici che influiscono sul tema del dissesto idrogeologico portandosi dietro anche il carico di iniziative sbagliate. Ci sono più esigenze di prima, anche se passi in avanti ne sono stati fatti, in territori con meno abitanti. È dentro queste sfide che per sviluppare piani di contrasto al dissesto e alla riduzione del rischio diventa fondamentale la ricerca, la tecnologia. Pensiamo ai satelliti rispetto all’osservazione della Terra o alle tecniche per la sicurezza dell’abitare. Insomma deve cambiare lo sguardo sulle cose. E poi insisto sull’approccio culturale pieno di pregiudizi. C’è una fragilità del territorio anche nelle città ma in questi casi non si parla di soldi e cattiva gestione. E la cattiva gestione non sono solo ruberie – non è una prerogativa del Sud o delle aree interne – ma soprattutto il futuro che sottrai ai giovani a cui dovresti consegnare un mondo migliore. Un esempio. La sola città di Roma ha una impronta ecologica che occupa circa due terzi del territorio italiano. Le città che “producono” innovazione e PIL lo fanno con un metabolismo che occupa spazi, ipoteca risorse e spinge le persone a svuotare sempre di più “i vuoti” e riempire sempre di più “i pieni”. Così l’Italia, mediterranea ed europea è più fragile. Questo è un dissesto culturale su cui intervenire con l’idea che ogni diritto piantato in aree interne e al Sud è un albero piantato nelle città e nella pianura Padana».

Roghudi, il piccolo borgo di origine greca, alle pendici dell’Aspromonte

Viceversa quali sono i vantaggi nel vivere nelle aree interne, al di là di quella che potrebbe essere definita una visione romantica?
«Vanno fatte delle scelte per questo buon e bel vivere. Ma scelte che medino tra interessi che sono anche contrapposti. Facendo un esempio per andare oltre il romanticismo e poesia, che pure servono. Perché le grandi Università del centro-nord che godono di un sistema di finanziamento ordinario più vantaggioso non incentivano le studentesse e gli studenti fuori sede a studiare e seguire i corsi per almeno metà dell’anno da casa propria? Una scelta robusta accompagnata da politiche di sostegno al diritto allo studio andrebbe ad intaccare il valore immobiliare, il mercato dei fitti e la rendita nelle città? Sarebbe interessante aprire un ragionamento in questa direzione. Così come fare delle Università del Sud i più importanti hub della conoscenza nel Mediterraneo per indagare ed investire su nuove rotte e rendere, in contesti territoriali e di servizi adeguati, più attrattiva l’offerta formativa nel Sud. Magari inizierei già dalle scuole superiori finanziando, con questa visione strategica, programmi Erasmus per migliaia e migliaia di ragazzi. Magari cosi resterà di più chi sceglie una università in un territorio che può aprirsi ad un diverso e altro mondo. Ovviamente non voglio banalizzare o semplificare eccessivamente ma voglio dire che ci sono politiche più strutturali da mettere a terra: welfare, infrastrutture e fiscalità di vantaggio. Ma la messa a terra di queste scelte è una difficile mediazione tra interessi a volte contrapposti e nei quali conta il mercato e la demografia. Per questo lo sguardo da offrire non può essere quello degli “altri” su di noi, anche perché penalizzerebbe l’intero Paese». (r.desanto@corrierecal.it)

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