«Vorrei regalare il libro al governatore Roberto Occhiuto per fargli comprendere come la vicenda del Ponte dello Stretto sia simile a quella del V centro siderurgico di Gioia Tauro. Anche quella volta si diceva tanto non lo faranno mai, poi l’hanno fatto e non è mai entrato in funzione». Il libro in questione è “Un paese felice”, il virgolettato da me raccolto è di Carmine Abate, uno dei massimi romanzieri calabresi viventi nelle sue restanze e partenze tra Carfizzi, nel crotonese Arbëreshë, Amburgo e il Trentino dove risiede, continuando a porre nei suoi libri di affermato autore, origini, tensioni e condizioni del nostro essere calabresi. La frase me la porge a poche ore della manifestazione contro il Ponte in cui 5.000 persone hanno manifestato a Villa San Giovanni contro la realizzazione della faraonica infrastruttura che dovrebbe stravolgere percezione di Scilla e Cariddi. Una grande opera di cui si parla da decenni e che divide l’opinione pubblica nazionale e locale. Il dialogo avviane nel contesto della presentazione dell’ultimo libro di Carmine Abate a Cosenza, “Un Paese felice” (Mondadori), volume selezionato nella decina che si contende il Premio Sila in assegnazione a giugno.
Abate ha diseppellito un’antica storia della Calabria che ne contiene tante altre. Se oggi digiti Eranova su Google trovi poche informazioni su questa frazione di Gioia Tauro che negli anni Settanta fu distrutta dalle ruspe per far posto al Porto e alla mai arrivata siderurgia di Gioia Tauro. Furono sradicati 600 ettari di ulivi secolari, agrumeti rigogliosi, pini ed eucalipti. Si perse il rapporto con una spiaggia incantevole e il mare cristallino. Duecento famiglie diventarono ostaggio di un fantasma sviluppista che non volevano. Vissero oltre 7 anni in stato di degrado e in attesa di deportazione. Come i loro fratelli di Africo, che da gente di montagna diventarono abitanti di mare, anche quelli di Eranova finirono smembrati altrove in due anonime frazioni di Gioia Tauro e San Ferdinando.
Carmine Abate come un archeologo l’ha scoperta e riesumata questa vicenda. Attraverso il racconto dei superstiti, dei documenti e di un’inchiesta preparatoria su un romanzo molto avvincente non solo per il suo contesto storico, ma anche per trama di vicende concentriche e di uno scavo linguistico da grande autore che italianizza il dialetto dei dialoghi diretti in modo comprensibile e sonoro.
Carmine, grande appassionato ed epigono di Gabriel Garcia Marquez, ha scoperto che Eranova era stata una nostra Macondo. Ma non per invenzione, piuttosto perché nel 1896 Ferdinando Rombolà, al pari di Josè Arcadio Buendia, per sfuggire ai soprusi del grande latifondista del luogo aveva costruito case di pietra lavica delle Eolie insieme ai suoi amici braccianti edificando la loro libertà e vivendo di agricoltura ed economia marina. Avevano fondato il loro paese abbandonandosi al tempo lento delle stagioni inebriati dal profumo delle zagare e idolatrando la loro terra che nessuno aveva promesso. Furono soli e abbandonati da tutti su quel clamore nato dalla Rivolta di Reggio Calabria e dalla compensazione della nascita del V centro siderurgico a Gioia Tauro. La sinistra, i sindacati e larga parte del governo avevano annunciato la svolta sviluppista e industriale della Calabria del Pacchetto Colombo. Uno dei più grandi investimenti italiani, miliardi di lire e la creazione di 7.500 posti di lavori. Poi i posti diventarono 4.500, poi non ne arrivò nessuno. Finì tutto con un grande inganno e la mafia agricola dei Piromalli diventò imprenditrice grazie al denaro pubblico del movimento terra.
Abate offre la sua tesi da intellettuale calabrese della modernità su danni e guai che si sono consumati in quel decennio. In quegli anni Settanta i calabresi non ebbero a disposizione gli strumenti per capire quale era lo sviluppo giusto per una regione dannata nei suoi destini.
L’autore mescola Storia e finzione da par suo. Nella vicenda d’amore di due giovani degli anni Settanta, svetta la protagonista femminile, Lina, la più determinata a difendere Eranova. Accadde veramente che le donne della contrada sbarrarono la via alle ruspe, in una scena alla “Novecento” di Bertolucci. Ma la lotta era impari.
Nel romanzo è rievocato il 25 aprile del 1975 quando il ministro Giulio Andreotti a Gioia Tauro, a 30 anni della Liberazione dal fascismo, parla alla folla per la posa della prima pietra del nuovo futuro radioso, dell’appalto più importante realizzato dallo Stato difendendo la “serietà della Repubblica italiana” sul fatto che quel sasso simbolico non era il solito pacco. Il divo Giulio annunciava economia integrata tra Industria, agricoltura, turismo. Accanto ad Andreotti quel giorno c’era anche Giacomo Mancini, convinto driver di quella scelta che proveniva dalla sua formazione culturale e politica. Nessuno aveva previsto la crisi mondiale dell’acciaio e che quel processo di programmazione stava andando a ficcarsi in un clamoroso vicolo cieco. Nel romanzo, Abate non fa cenno alle reazioni che ci furono a quella manifestazione sui grandi giornali del Nord che quell’investimento non volevano fosse realizzato in Calabria, ma non per serietà di analisi ma per pregiudizio antimeridionale e interessi della razza padrona. Abate è un romanziere, non uno storico. E la trama quindi si sposta tra l’Università di Bari dove i due protagonisti s’incontrano e iniziano il loro amore da anni Settanta. Apparirà anche Pier Paolo Pasolini a diventare interlocutore di chi vuol fermare lo scempio di Eranova. Lina nella finzione lo aspetta al suo paese, spera in lui, ma quella “storia vestita di nero” del 2 novembre 1975 come la cantò De Andrè, ne impedisce l’arrivo.
E Carmine Abate diventa epigono di Pasolini perché “Un paese felice” è storia anche di gente ospitale e chiacchierona, di ultimi della terra, di fimmine matriarcali, del giallo di un prete, di un pescatore che cova un segreto, di Cenzo capomastro della sua comunità, di mafia nascosta negli anfratti. La letteratura avvolge la Storia della beffa del V centro siderurgico quando il IV era già malandato. Chi poteva avere il coraggio di sbancare un paese per costruirci nulla? E se oggi sbancassero cimiteri e case e offrissero espropri da Cariddi a Tropea e capitasse anche stavolta per un Ponte immaginario? Se hanno sbagliato quelli che erano più capaci della Prima Repubblica possiamo fidarci di questi di adesso, soprattutto di chi il Ponte prima non lo voleva e adesso è diventato il suo primo pensiero? Anche i loro posti di lavoro se metti in fila gli annunci degli ultimi mesi sembrano una lotteria: prima 140000, poi 4000, ora 100000 con l’indotto. Ma questa è cronaca di oggi. Eranova del libro di Abate «è una calamita». L’amiamo noi calabresi «che abbiamo conosciuto emigranti di ieri e di oggi, e turisti forestieri e nostrani». Ad Eranova c’erano mare, sole, profumi, frutta, olio buono, pane e pesce fresco. Eranova era un paese felice. Oggi c’è un Porto che è uno dei più importanti del Mediterraneo. Ma sembra rimasta la stessa delusa attesa degli anni Settanta. Quella di calabresi, italiani per caso, che anche quando costruiscono una magnifica utopia devono combattere il loro destino coloniale, le loro divisioni e tramutare loro stessi nei principali nemici della propria terra. Dimenticandosi della loro capacità di aver saputo prendere in mano il proprio destino e averne deciso il riscatto. (redazione@corrierecal.it)
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