LAMEZIA TERME «E’ un libro di rara bellezza». Ha ragione Claudia Clina Toma, docente di fitoterapia all’Università di Arad (Romania). Forse perché, oltre a validare, alla luce delle più recenti evidenze scientifiche, la straordinaria competenza erboristica di un “gigante della santità”, s’ immerge (col rischio a volte di seminare più dubbi che certezze) nella complessa relazione tra ragione e fede. Presupponendo che la ragione non sia avversaria della fede e viceversa.
A sostegno della tesi mons. Antonio Staglianò, presidente della “Pontificia accademia teologica”, in un recente volume (“Ripensare il pensiero” a 25 anni dalla “Fides et Ratio” di Paolo Giovanni II), spiega che «la fede non blocca le vie del pensiero, ma le apre, radicalizzando le domande, e con alcune sue risposte le porta alla loro vera profondità e drammaticità».
Concetto approfondito da padre Gregorio Colatorti, correttore generale dell’Ordine dei Minimi, che firma la prefazione: «la fede privata della ragione corre il rischio di non essere più una proposta universale. Dinanzi ad una ragione debole, la fede non ha maggiore incisività, anzi cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o superstizione».
Il libro “Le erbe di San Francesco di Paola” (autori Giancarlo Statti docente di biologia farmaceutica all’Unical e Carmine Lupia etnobotanico) edito da Rubbettino (pagg 127, 14 euro), non è intrigante solo per l’ originale raccolta di 102 schede descrittive delle piante, realizzata grazie all’identificazione delle specie con criteri della sistematica vegetale e in modo da offrire una classificazione delle essenze vegetali riportate nelle trascrizioni dei processi canonici.
Ma soprattutto per la capacità di oscillare tra scienza, natura, tradizione popolare e spiritualità, senza la presunzione di fermare il pendolo. Per gli autori, San Francesco conosceva bene la botanica, la farmaceutica, la biochimica, l’ecologia e le virtù medicinali e nutritive delle piante. «Come si rileva – scrivono – dal fatto che scegliesse sempre le erbe medicinali giuste, farmacologicamente parlando, per ogni patologia che doveva curare e spesso usava miscele di più piante o alimenti al fine di favorirne l’attività biologica e gli effetti che oggi definiremmo sinergici».
Ma se può apparire che il potere taumaturgico del santo discendesse dall’esclusivo approccio scientifico, sono gli stessi autori a infilare dubbi. Infatti, pur constatando che Francesco guariva gli ammalati con le erbe e riusciva dove i medici fallivano, non possono fare a meno di riportare le sue parole: «E’ la fede che fa i miracoli. A chi serve fedelmente Dio anche le erbe manifestano le loro virtù». Un bel dilemma!
Il punto è che i “miracoli” erboristici sono soltanto una parte della poliedrica personalità di san Francesco e il volume ha il merito di ricordare che il protettore della Calabria, della Sicilia e delle genti di mare, la cui vita si svolse tra il XV e l’inizio del XVI secolo (1416-1507), è stato non solo un conclamato taumaturgo, ma anche un “profeta itinerante”. Uno degli artefici della rinascita religiosa e morale d’Europa.
E’ stato uomo europeo ante litteram, che alla corte francese (chiamato da re Luigi XI ) ha vissuto per ben 24 anni. San Francesco di Paola fu il diplomatico europeo del XV secolo.
Non si è solo adoperato per il riscatto sociale dei poveri che subivano le vessazioni della Casa aragonese nel Regno di Napoli, denunciando apertamente le malefatte dei potenti, al punto che per i vescovi è stato “il santo della carità sociale”.
Ma ha anche svolto delicate missioni politiche per conto del Papa, del re di Napoli e del re di Francia, puntando alla riforma della Chiesa. Alla corte di Francia, l’eremita di Paola influenzò le scelte dei sovrani in un’epoca in cui sorgevano gli Stati nazionali, ponendo le radici cristiane a fondamento della nascita dell’ Europa.
Sbarcando in Francia s’interessò dei problemi politici, badando al mantenimento della pace in Europa. Com’è scritto nella bolla della sua canonizzazione, papa Leone X lo definisce «l’uomo inviato dalla Provvidenza per far luce fra le tenebre che avvolgevano il suo tempo».
Arricchisce il testo, inoltre, l’epopea dello studio delle piante e delle erbe che nel Medioevo vide impegnati i monaci che, in uno scenario di dissoluzione globale, nei monasteri piantavano e sperimentavano le specie descritte nei manuali classici.
I monasteri si scambiavano sementi, talee di piante medicinali, frutti e ortaggi che servivano per integrare l’alimentazione delle comunità. E’ grazie ai monaci che fu possibile la ricostruzione agraria di gran parte dell’Europa. Come sostengono più autorevoli storici: «i monaci, ovunque andassero, trasformavano la terra desolata in terra coltivata. Intraprendevano la coltivazione del bestiame e della terra, lavoravano con le proprie mani, prosciugavano paludi e abbattevano foreste».
François Guizot, che non aveva simpatie per la Chiesa cattolica, asserì che «i monaci benedettini furono gli agricoltori d’Europa. La pulirono su larga scala, associando agricoltura e predicazione».
A quegli sforzi poderosi, per rimettere in piedi l’economica e la vita sociale dell’Occidente, senza mai ricorrere ad aberranti scontri di civiltà ma dando valore all’integrazione pacifica dei popoli, con lo studio, la cultura e le “arti pratiche”, forse, di tanto in tanto, dovrebbero volgere lo sguardo gli europeisti del nostro tempo.
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