Rino Gaetano parlava in tempi remoti di «Paese diviso»: in “Aida”, brano musicale pubblicato nel 1977, l’anno in cui partì a Catanzaro il processo per la strage di Piazza Fontana. Nel singolo “Ma il Cielo è sempre più blu”, del ’75, lo stesso cantautore aveva già posto alla sua maniera il tema delle diseguaglianze sociali e territoriali, per esempio nei versi «chi prende assai poco, chi gioca col fuoco» e «chi vive in Calabria, chi vive d’amore».
Oggi la discussione sui divari tra Nord e Sud è ritornata sulla scena pubblica, soprattutto per via della legge attuativa dell’articolo 116, comma terzo, della Costituzione repubblicana, più nota come «autonomia differenziata» o «legge Calderoli», su cui l’altro ieri è stato presentato nell’Università della Calabria il libro “L’Italia differenziata”, degli economisti Vittorio Daniele e Carmine Petraglia, con un acceso dibattito di merito. Ne abbiamo approfittato per approfondire l’argomento in un’intervista con il professore Daniele, che insegna Politica economica nell’Università di Catanzaro e che aveva già pubblicato dei volumi sulle disparità fra Settentrione e meridione, tra cui “Nord e Sud nella storia d’Italia” e “Il divario Nord-Sud in Italia, 1861-2011”, scritto assieme a Paolo Malanima.
“L’Italia differenziata. Autonomia regionale e divari territoriali” (Rubbettino, 2024) è il titolo di un recente libro che lei ha scritto insieme a Carmelo Petraglia, professore associato di Economia politica nell’Università della Basilicata. Il volume si prefigge di chiarire che cosa cambia con l’autonomia differenziata regionale, considerata un’opportunità dal centrodestra e una iattura dal centrosinistra. Lei come la vede?
«Premesso che sulla legge Calderoli (la n. 86/2024), che disciplina l’autonomia differenziata, pende una richiesta di referendum abrogativo, ritengo che la devoluzione di nuove funzioni alle Regioni, in tutta una serie di importanti materie porterà a un aumento dei già ampi divari economici e nei servizi pubblici tra Nord e Sud. Penso che quello dei divari regionali sia il vero tema che, al di là del dibattito sull’autonomia, dovrebbe essere affrontato. Sembra paradossale, ma la maggiore autonomia regionale richiede un maggiore ruolo perequativo, cioè di riequilibrio territoriale da parte dello Stato, e il superamento dell’iniquo criterio della “spesa storica” nella distribuzione delle risorse tra i territori. Altrimenti le disuguaglianze non potranno che aumentare».
A proposito di autonomia differenziata, l’attenzione della politica è ancora molto concentrata, in generale, sulla definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni e dei servizi che devono essere garantiti in modo uniforme nel territorio nazionale. È tutto qui il problema?
«Il tema dei Lep è di notevole importanza. Per quel che riguarda i cosiddetti “diritti civili e sociali”, come prevede la Costituzione, i livelli essenziali delle prestazioni devono essere tutelati indipendentemente dall’autonomia differenziata. Al momento, i Lep sono definiti solo per alcuni servizi, come quelli socioassistenziali (asili nido, operatori sociali eccetera) e per la sanità, anche se, come vediamo, il fatto che vengano stabiliti dei parametri non significa che vengano effettivamente garantiti. Le regioni meridionali, Calabria inclusa, risultano da anni inadempienti nel conseguimento dei cosiddetti Livelli essenziali di assistenza. Per quanto riguarda l’autonomia differenziata, la legge Calderoli è chiara: in quattordici materie – tra cui istruzione, sanità, reti di trasporto, ambiente o sicurezza sul lavoro – non può esserci un trasferimento di funzioni alle Regioni se prima non sono stati determinati e finanziati i Lep. Se questi “livelli minimi” saranno fissati in maniera adeguata, cioè adeguando gli standard alle regioni più virtuose e non, invece, “al ribasso”, il loro finanziamento richiederà ingenti risorse. Dato il quadro di finanza pubblica, resta l’incognita di dove reperire le risorse. Di conseguenza, per alcune di quelle materie l’autonomia differenziata rischia di rimanere sulla carta».
Quali sono, a suo avviso, i rischi e i vantaggi dell’autonomia differenziata?
«In linea teorica, il trasferimento di competenze dallo Stato alle Regioni o agli enti locali è giustificato per quei servizi che possono essere forniti meglio a livello decentrato piuttosto che centralizzato. Criterio che non sembra trovare applicazione in molte delle 23 materie in cui le Regioni potrebbero ottenere maggiore autonomia. Si pensi all’istruzione, alla tutela dell’ambiente, alle grandi reti di trasporto ed energetiche o all’ordinamento della comunicazione. In tali materie, in cui già le Regioni hanno competenze, il decentramento potrebbe riguardare solo specifiche funzioni. L’autonomia “differenziata” pone inoltre dei problemi perché rischia di creare differenze regionali nelle normative e nell’organizzazione dei servizi. Incertezze riguardano poi il finanziamento. La legge Calderoli prevede che il trasferimento di funzioni alle Regioni non può comportare oneri per la finanza pubblica né pregiudicare le altre Regioni. Le Regioni dovranno cioè finanziare le nuove funzioni trattenendo quote dei tributi riscossi sul territorio, come avviene attualmente per le Regioni a statuto speciale. Ciò significa meno entrate per lo Stato. Al di là delle previsioni di legge, il rischio è che di fatto ciò si traduca in tagli di servizi e in minori risorse destinate al riequilibrio territoriale».
C’era l’esigenza e l’urgenza, a suo avviso, della cosiddetta «legge Calderoli»?
«Tutti sanno che la legge sull’autonomia differenziata è una “bandierina politica” per la Lega. Una legge che arriva 23 anni dopo la riforma costituzionale del 2001. Un esito paradossale, se si pensa che quella riforma costituzionale fu approvata con i soli voti della maggioranza del centrosinistra di allora (l’Ulivo), mentre la Lega Nord, guidata da Umberto Bossi, era contraria. Nel 2018, sono state sottoscritte delle “intese preliminari” tra il governo Gentiloni e Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto. Ma va anche ricordato che tutte le Regioni ordinarie (a eccezione di Abruzzo e Molise) hanno manifestato, con atti formali, il loro interesse a ottenere maggiore autonomia in diverse materie. La legge Calderoli, che interviene dopo tanti anni, attua una previsione costituzionale».
Che cosa ha prodotto, dopo 23 anni, la riforma del Titolo V della Costituzione?
«Guardi, penso che bisognerebbe interrogarsi sul ruolo delle Regioni. Come mostra il caso della sanità, il trasferimento di funzioni e competenze alle istituzioni regionali non ha ridotto i divari territoriali che storicamente caratterizzano il nostro Paese. Anzi, i divari sono cresciuti. Ciò per una serie di motivi: differenze nelle risorse disponibili ma anche nelle capacità amministrative e gestionali regionali. È certamente vero che i divari hanno radici storiche, ma è altrettanto vero che il regionalismo non ha avuto gli esiti sperati, soprattutto nel Mezzogiorno. Le Regioni sono diventati “corpi amministrativi” con un grande apparato burocratico, le cui risorse sono per tre quarti assorbite dalla sanità. C’è poi da rilevare la crescente disaffezione dei cittadini, attestata dal crollo della partecipazione al voto».
A causa della pandemia, diversi parlamentari avevano presentato nella scorsa legislatura delle proposte di legge per cancellare o ridimensionare il regionalismo in materia tutela della salute. C’è poi stata un’inversione di rotta? Se sì, perché?
«La pandemia ha mostrato come il coordinamento dello Stato in alcuni ambiti rimanga essenziale. Di fronte a una pandemia, è necessaria una risposta unitaria, che solo lo Stato può dare e non ci possono essere iniziative regionali e comunali diverse o, addirittura, contrastanti. È necessario, poi, che ci siano servizi sanitari omogenei, in grado di rispondere alle emergenze. Non mi sembra che la pandemia – al di là delle dichiarazioni d’intenti – abbia comportato un sostanziale cambiamento di rotta. La tutela della salute richiede politiche e strutture centrali per ridurre le differenze tra i servizi sanitari regionali. Il ruolo dello Stato dovrebbe essere rafforzato, non ridotto delegando ulteriori funzioni alle regioni».
L’espressione «divari territoriali» è molto presente nel discorso pubblico sull’autonomia differenziata e nei dibattiti sul futuro delle aree interne. Che cosa è stato fatto e che cosa si dovrebbe fare per ridurre le diseguaglianze tra i territori della nazione?
«È impossibile rispondere a questa domanda in poche battute. Si ha una risposta se si guarda ai divari economici negli ultimi trent’anni: non si sono ridotti, mentre l’emigrazione giovanile dal Sud verso il Nord è aumentata. Distinguerei però tra divari economici e nei servizi pubblici. I primi non dipendono solo dalla politica, ma anche dalle forze di mercato, dalle convenienze relative che determinano gli investimenti privati; i divari nei servizi pubblici o nelle infrastrutture dipendono, invece, da scelte politiche e delle classi dirigenti. Su questi si può e si deve intervenire, fissando degli standard, ripensando i modelli organizzativi delle amministrazioni, prevedendo sistemi di controllo adeguati, garantendo risorse umane e finanziarie. In linea di principio, non c’è un motivo per il quale le strutture sanitarie in Calabria non debbano funzionare come nelle Regioni del Nord. Eppure è ciò che accade».
Qualcuno dice che il cittadino residente in Calabria paga tre volte le prestazioni sanitarie cui avrebbe diritto. Altri lamentano che diversi ospedali della regione non hanno dotazioni adeguate alle loro funzioni e sostengono che l’Università di Catanzaro gioca un ruolo ancora marginale nel rilancio dei servizi sanitari pubblici. Se è vero, non funziona il commissariamento governativo in sé, che dura da 14 anni, oppure il regime commissariale è un alibi e le criticità esistenti dipendono soprattutto da altri problemi, di visione e di sistema?
«Il commissariamento ha dimostrato i suoi limiti. Non si può pensare di risolvere il problema della sanità tagliando reparti e strutture e applicando una logica “ragionieristica” che prescinda dai bisogni di cure delle popolazioni. Il risultato è l’emigrazione sanitaria. Tra il 2011 e il 2023, la Calabria ha sborsato mediamente 270 milioni di euro all’anno per pagare le prestazioni ai calabresi che sono andati a curarsi in altre regioni. Dalle regioni meridionali c’è stato un travaso di 13 miliardi di euro che sono andati a quelle del Nord. Il sistema sanitario regionale va potenziato e riorganizzato. Operazione non semplice ma necessaria».
Le opposizioni rimproverano al presidente Roberto Occhiuto di essere morbido sul tema dell’autonomia differenziata. Al di là della dialettica politica, in cui è naturale il bisticcio tra le parti, che cosa potrebbe fare la Regione Calabria, ora che è in vigore la «legge Calderoli», per recuperare terreno nell’ambito dei servizi essenziali?
«Penso che le Regioni abbiano degli spazi per “differenziarsi” adottando, cioè, norme e politiche che, nell’ambito delle loro competenze, rispondano a specifiche necessità e bisogni territoriali, come ha fatto in alcuni casi il presidente Occhiuto. Nella sanità, come mostrano le diverse esperienze regionali (si pensi ai casi della Lombardia e all’Emilia-Romagna) si può rispondere ai bisogni di cure, pur adottando modelli organizzativi differenti. È del tutto evidente che i problemi e le disfunzioni di oggi sono l’eredita di gestioni passate. Non è banale, ma un primo importante passo consiste nella selezione di dirigenti capaci e nella verifica dei risultati prodotti. Migliorare il funzionamento delle strutture esistenti è possibile, ma ovviamente servono anche nuove risorse finanziarie e umane».
Come giudica il dibattito in Calabria sul regionalismo differenziato?
«Il dibattito nazionale è chiaramente politicizzato. Non solo in Calabria, i cittadini sono poco informati riguardo alle implicazioni di una riforma che – se andrà avanti – avrà grandi ricadute sulla vita quotidiana di ciascuno. Nel 2001, la riforma costituzionale venne fatta per sottrarre consenso alla Lega Nord, cioè per motivi politici ed elettorali contingenti. Un “vizio originario” che si è riflesso su tutto il percorso dell’autonomia differenziata. Riforme che incidono così profondamente sull’assetto dello Stato e, quindi sulla vita dei cittadini, non dovrebbero essere fatte per motivi politici contingenti. Dovrebbero essere fatte nell’obiettivo dello sviluppo del Paese. Cosa che non è avvenuta, con tutti i problemi e le incertezze che ne sono derivate». (redazione@corrierecal.it)
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