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Good luck Brunori Sas

È argomento à la page Sanremo, in Calabria declinato tout court in Brunori Sas. Il suo pezzo, già evidenziato dall’Accademia della Crusca per pregio formale e sostanziale, per l’impianto linguisti…

Pubblicato il: 15/02/2025 – 18:15
di Giovanni Iaquinta
Good luck Brunori Sas

È argomento à la page Sanremo, in Calabria declinato tout court in Brunori Sas. Il suo pezzo, già evidenziato dall’Accademia della Crusca per pregio formale e sostanziale, per l’impianto linguistico denotativo e connotativo, viaggia su vette artistico-letterarie, ricercate e di gran classe. Il cantautore calabrese non è Simone Cristicchi, che pare recitare a soggetto, sebbene con un brano serio e impegnativo, raffinato ed arrangiato elegantemente; non di pregio minore la proposta di Lucio Corsi, surreale e immaginifico, un po’ aria di “2025, Odissea nello spazio”; sempre divina e incorporea Giorgia, tutto il corpo nella forza dell’estensione vocalica; come provocazioni condensate di stravaganza, criptiche e pacchiane si presentano le uscite di Achille Lauro. I fatti di musica, d’altro canto, pensata al maiuscolo, impongono altro. Così, nel miracolo narrativo e musicale di Brunori Sas c’è un po’ De Gregori e un po’ Gaber. C’è intorno l’aura magica e cerebralmente lungimirante, scanzonata e geniale di Rino Gaetano e del suo retaggio fuori dagli schemi. È un cantante, un cantautore di razza l’artista calabrese. Con un incedere vocalico esclusivo, immediatamente riconoscibile. Ammaliante e fluido, graffiato da una leggera inflessione bruzia, inconfondibile, a inseguire la vis teatrale per niente costruita a tavolino. Naturale. “L’albero delle noci”è una gigantesca tela meridiana, sospesa con fili, tra mare e montagna, che riflettono la Calabria. Al riparo dalla retorica d’occasione, a predisposizione intermittente, la parte migliore e speciale che resiste. Colpita dieci, cento, mille volte, quasi distrutta. Che si piega. Ma non si spezza, continuando caparbiamente a restare attaccata a quel ritmo fragile, impazzito, pericoloso e cangiante dello “sfasciume pendulo sul mare”(Giustino Fortunato). Si sente la forza del paesaggio nella successione in crescendo delle note, la possanza della memoria, la testa pensante che conosce fin nelle midolla la Calabria a colori e quella in bianco e nero. I limiti e i lividi. I voli imprendibili e i punti di forza. Il minuscolo alito che la tiene in vita, nonostante tutto. Non è tempo di affondi ermeneutici nel testo – un tuffo privato e collettivo, un viaggio tra sfera privata e pubblica, per il richiamo a contesti e fatti che appartengono a tutti quelli che resistono nella punta estrema dello stivale che galleggia nel cuore del Mediterraneo. È tempo per innamorarsi perdutamente di una canzone bellissima. Per farsi trasportare lontano con la testa, per riconoscere la sua bellezza. Più pensosa e istintiva. Ora dolce, ora struggente. Che sa di retaggio e resoconto morale, di scommessa e resilienza. È un’onda anomala nel panorama al ribasso per qualità delle proposte,, piatto dell’Italia contemporanea quella che porta nella città dei fiori Dario Brunori. Nel caleidoscopio di Sanremo, nell’edificio patinato di una competizione canora che assiste da anni a insulti alla migliore tradizione della canzone italiana, sarebbe l’ennesima occasione persa, se in Calabria non rendessimo il giusto peso, l’onore che merita al cantautore calabrese. Per sostenerlo, nell’ultimo miglio della serata. E ringraziarlo per la delicatissima e commovente poesia che ha portato, con classe e ironia, sul palcoscenico dell’Ariston. Un cosa è certa: l’energia prorompente che lo ha accompagnato, lo stile tanto originale e particolare è un’iniezione di fiducia nel cuore di una terra anestetizzata, in sclerosi estetica da tantissimo tempo, è una lente pubblicitaria fortissima appoggiata su una storia, un territorio, luoghi e persone che hanno sete di nuovo spazio, nuova centralità nel Terzo Millennio. Un’operazione, a costo zero, che Dario ci lascia in dote e ci mette dentro, nel cuore e nella testa. Un’operazione che non è riuscita, a costo tutt’altro che zero, a “Calabria, terra mia”, lo spot di Gabriele Muccino. Solo così potremo assistere sempre di meno a troppe “persone buone che portano in testa corone di spine”. Solo così potremo distinguere il “sangue”, che è cattiveria, morte, dal “vino”, che è gioia, vita, agape. Amore. Conta poco se “Sembriamo caduti da una distanza siderale”; possiamo ancora abituarci, Dario, a “tutta questa felicità” che dal palco ha incantato il Paese. Good luck!

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