Nel podere “Fico d’India”, nell’appartata contrada di Schiavo, facente parte del Comune di Ardore Marina, in Provincia di Reggio Calabria, Don Bastiano Pantisano, detto “u vurpignu”, a capo della più temuta e feroce ‘ndrina, tanto del proprio paese quanto di quelli limitrofi, in un caldo pomeriggio di inizio giugno, aveva riunito in una delle numerose stanze della sua confortevole dimora i suoi più stretti collaboratori, seduti dietro scomodi banchetti scolastici procurati da un bidello della locale Scuola Elementare.
Essi erano Loredano Saponetta, sfasciacarrozze, chiamato “Centoventisette”, Amato Quattrocento, disoccupato, detto “Nacatola”, Lillino Sciosciò, macellaio, conosciuto come “Knorr”, Attila Tamburo, killer e tiratore scelto soprannominato “Pancreas”, il nipote del boss, Saveriuzzo Pantisano definito ‘u scimunitu’ ventiseienne dotato di pensione di invalidità per “inadeguatezza cerebrale” e Cosimo Trapezio, noto come “Ferryboat”, il cui nome era dovuto ai 146 chili di peso, uomo di fiducia del Capobastone.
All’appello mancava solo Don Aneto Zippola, addetto alla cassa del clan e a tutti gli affari valutari. L’assenza alla “riunione” era giustificata da due motivi. Primo: essendo quello un vero e proprio “doposcuola”, lui ne era esentato in quanto in possesso del diploma di cuoco, rilasciatogli dopo tre anni di frequenza dalla Scuola Alberghiera di Locri, e pertanto era un uomo di indiscutibile cultura. E secondo, perché in quello stesso pomeriggio doveva compiere un’importante missione per conto del Boss.
Quest’ultimo, non essendo latitante per aver pagato il suo debito con la giustizia con trenta anni di reclusione per duplice omicidio, era riuscito dopo molti sforzi ad essere promosso in seconda Media in carcere e pertanto, da uomo istruito quale si sentiva, esigeva che i suoi sottoposti abbandonassero il loro gutturale dialetto e imparassero tutti l’italiano, per dimostrare a sbirri e magistrati che anche gli uomini d’onore potevano stare brillantemente in società.
Così, guardandoli in faccia uno per uno disse il Boss: “Ora vediamo se ricordate qualcosa dall’ultima lezione -e voltandosi verso la lavagna appositamente affissa sulla parete scrisse – “Nacatola e un choglione”- e poi, rivolgendosi all’uditorio un po’ stranito, chiese:- in questa frase c’è un errore. Chi sa dirmi qual’é?.
Un conciliabolo attraversò la fila dei banchi, finché Knorr prese coraggio e disse: “Nacatola si scrive con due “c”!”. “No pezzo di mulo ‘mputridito. L’errore è un altro!” Ribatté Don Bastiano. Pancreas, dimmelo tu. Qual’è?” Il Killer, evidentemente più a suo agio con un fucile d’assalto Beretta ARX 160 che con la grammatica, quasi balbettò: “ For-se choglione si scrive sen-za “n”?” “NOO!! Idioti figli di ‘ndrocchie ‘mpestate!! L’errore è un altro – urlò il Capo ‘ndrina – “Nacatola e ’ un choglione si scrive con l’apostrofo!!!”.
“Istrici partorite da zoccole: che cosa dovrebbi farvi? Bollirvi nell olio di semi vari? Farvi masticare le ascelle dai miei Ruttvailer? Impa-ra-re il ta-lia-no è ‘mpor-tan-te!! Vi lapre tut-te le porte!! Come cazzo ve lo devo dire perche vi entri in quelle cucuzze ammarcite che avete al posto della testa? Io, per esempio, volevi accattare il titolo di Vischonti. E sapiti pirché non me lo vendino? Pirchè non ho la Terza Media!!!”. L’ira di Pantisano fu placata solo dall’arrivo di Don Aneto Zippola, il quale, a vederlo non portava notizie propriamente confortanti. Con l’intuito del “volpigno” che lo contraddistingueva, il Don capì subito che c’era qualcosa che non tornava e sciogliendo il “doposcuola”, con sollievo di tutti, il Capobastone e Zippola si chiusero a confabulare nel soggiorno.
Quando uscirono, dopo mezz’ora, Don Bastaino congedò tutti coloro che erano ancora rimasti, ad eccezione di Saveriuzzo “u scimunito”. “Tu no! Resta! Accussì parliamo du disastru chi combinasti!” A Pantisano junior le ginocchia diventarono di burro, ma non fu niente rispetto ai due enormi schiaffoni dello zio che lo fecero cadere a terra, nonché del pauroso calcio in culo che lo spostò di due metri e mezzo sul pavimento.
“Il qui presente don Aneto, sta ‘ppena tornando da Locri indove ha tenuto una riunione assai ‘mportante con quelli del clan Risucchio -esordì il boss-. Io la passata settimana scorsa, oh venduto a questi quaquaraquà della minchia, un chilo di fentanyl purissimo. Ed ora Ughino Risucchio, il loro capo ‘ndrina non me l’ho vuole pagare, perchì dice che era tagliato con polviri bianca di marmi di cimiteri per renderlo più aromatico e inculare a illu, chi però non ci è cascatu”.
“La vera e verissima verità è un’altra. Per le cuantità importanti di droga, io mi servo dai cumpari di San Luca e chilli, con tutti i miliardi chi tengono, potiti cridiri che volivano farmi uno sgarbo per qualchi decina di migliara di euri propria a mia? Nooo: la verissima verità è un’altra. Il Risucchio capo c’è l’ha a morti con mia -disse assestando un altro calcio in culo più forte del primo allo scimunito, facendogli superare stavolta un metro, ma in altezza-, perché tu bestia di un lordazzo schifuso gli hai messo incinta la figghia, chi a Scuola Elementare ah riportato nel test Uechsler, o come cazzo, si dice, un punteggio di 54 su 100 e lui non può accettare la gravitanza”. “Ora, pezzu di coniglio ‘mbecille e arrapatu, devi ‘mparare ca qui ci si ammazza per dù ragiuni: o quistioni i sordi, o quistioni i lettu. Terzum non dattur! E poicà qui i sordi sono solo un pretesto, allura vol diri che è quistioni di lettu. Allura, per evitari una guerra cu morti di ‘ntrambi i parti, vuoli dire che questa Lillina Risucchio, se non mi ricordassi mali u nomi, te la devi maritari al più presto!”.
“No, zio! Per favore cuesto no! -Rispose dolorante e anchilosato Saveriuzzu- Lillina è cchiu brutta di fucilati, e se permettiti, io sogno l’unico nipute mascolo chi aviti e, u sapiti bonu che non sogno tanto giusto i testa. Epperrciò se me la sposo chi niputella avriti da due come nui? Vi piacerebbe essiri zio di tri o quattro scimuniti con poco meno cuoziente di intelligenza di Al Bano? Dicetemi che no. Vi preco!”.
Queste accorate parole fecero zittire il Don, il quale si mise a riflettere in silenzio per più di venti minuti seduto su una poltrona, con Aneto Zippola che gli stava accanto, in piedi e in silenzio. “E sia! -Esclamò infine il Capo ‘ndrina- Saveriuzzu, tu certi voti mi sorprendi, e cuesta è una di cuelle volte. Bastiano Pantisano merita una discendenza sana e forti, nostanti a te. E tu ti devi maritare la femmina più bella e con accertata salute di ferro della Provincia, che dia figghi boni i testa e i corpu, degni di portari il cognomi Pantisano. “E con Lillino Risucchio e la sua ‘ndrina come la mettiamo?” Chiese dubbioso Don Aneto. “A cuesto ci penso io -disse il Capobastone-, però senza spargimenti di sangu da parti nostra o ‘mmazzatini chi ferri. Cuel locrese schifuso s’aspetta che gli facciamo la guerra con mitra e bumbi a mano, ma si sbaglia. Non mi vuoli pacare il fentanyl? Non me mo pachi. Come se non sapessi da fonti certa che ha accattato dal reparto dai Servizi Secreti, di Zelinschi due missili SS-20 Saber, con una gittata di 5.500 chilometra, e non aspetta altro che una nostra prima azioni di guerra per i soldi che mi deve, per polverizzarci con cuelli. Ma io non ci casco. Scimunito, vammi a chiamari subito Ferryboat.
Appena arrivato l’uomo di fiducia del Don, il Capobastone, dopo aver fatto uscire gli altri due dal salone, scrisse su un foglietto una località e un nome e gli disse: “Anoressichio, cuest’uomo sarà la nostra macchina da guerra. Tu devi trovarlo a tutti i costi e offrirgli 100.000 euro che gli darò a missione conclusa. E se non gli abbastano proponigli 200.000, ma tra tri jornate al massimo lo voglio aqquà”. E poi chiama Nacatola e mandalo all’”Eco della Locride”, che si facci dare dal loro ‘rchivio tutte le foto chi hanno dilla Famiglia Risucchio.
Ferryboat non aveva mai discusso gli ordini del boss, e non lo fece neanche questa volta, ma non poté fare a meno di chiedersi il perché delle foto e chi fosse questa persona, così capace, tanto da mettere fuori gioco tutti i cinque membri della Famiglia Risucchio, Lillina esclusa. Cosi salì sul suo SUV e iniziò un viaggio di alcune centinaia di chilometri.
“Ah accettato, don Bastiano. Per 200.000 euri, ma ah accettato! -Comunicò soddisfatto , ma tremante, il giorno dopo da un cellulare criptato l’uomo di fiducia al suo Boss- Però, non so dirvi quello che oh visto e sentito su esso. Cose da far incaponire la pelle! Sto ancora trimando e non so se dopo ‘vergli parlato, tornerò tutto sano a casa. Comuncue dovremmo partire stanotte stessa da Agrigentu e domani, in matinata, esseri a Schiavo. Issu chiedi solo se per piaciri gli fati aviri una stanza sgombra e cu i finesri serrati”.
Puntuale come la campane a morte nei funerali, la mattina dopo arrivò a Schiavo uno strano corteo, composto da due sole auto. La prima era il SUV di Ferryboat, dall’aspetto cadaverico, immediatamente seguito da un carro funebre recante al suo interno una bara di legno di noce, la quale fu prontamente scaricata e trasportata nella stanza sistemata nel modo richiesto.
Accomodato il feretro su due cavalletti da Knorr e Pancreas, Don Bastiano bussò con le nocche su di esso chiedendo: “Allora, vossignoria è pronto? Possiamo cominciari da subito o vi abbisogna altro tempo?”. Dalla bara si levò una voce che avrebbe fatto cacare addosso anche Stalin, il cui soprannome in russo significa “acciaio”, e disse: “Ora va bene. Uscite, chiudete la porta e cominciamo”.
Gli uomini del capobastone non sapevano che pensare, ma poco a poco si convinsero tutti della teoria dello sfasciacarrozze “Centoventisette”. “La dintra c’è Franco Nero nella originaria versione di Django, e come nel filmo porta dentro la bara una mitragliatrice “Maxim M1910” da 500 colpi al minuto, con la cuale ammazzerà tutti!”. Le cose però andarono diversamente. Don Bastiano chiamò a sé Nacatola e si fece consegnare la voluminosa busta che questi portava in mano. Il Boss la aprì e, spargendole sul piano di un tavolo, esaminò tutte le foto contenute in essa, provenienti dagli archivi dell’”Eco della Locride”. Facendo estrema attenzione, le enumerò con un pennarello rosso da uno a cinque e li infilò seguendo la sequenza sotto l’uscio della porta.
Ventisette minuti dopo, il diciottenne Manilio Risucchio, il più giovane della Famiglia, scivolò con lo scooter su una chiazza d’olio sulla strada e andò a sfondare con la testa, naturalmente senza casco, la vetrina di un negozio di stoccafisso, procurandosi ferite mortali. Passati altri diciannove minuti, Ugolino, il terzo dei maschi della stessa ‘ndrina, soffocò mentre stava dormendo, dopo aver inghiottito la sua protesi dentaria, seguito a quaranta minuti di distanza dal secondogenito Sofocle Risucchio, deceduto a causa di un’improvvisa e inspiegabile, dati i suoi ventiquattro anni, ischemia cerebrale.
Ughino Risucchio, il capo ‘ndrina, e suo figlio maggiore Carmelino non ebbero nemmeno il tempo di chiedersi cosa stava avvenendo che, mentre facevano rifornimento alla loro BMW, il distributore di benzina esplose improvvisamente, rendendoli delle autentiche torce umane. L’unica a salvarsi fu Lillina che, dopo settantadue ore dai funerali, si capacitò che i suoi cari erano morti e lei era rimasta sola con la madre Vannina Pancetta.
Intanto, in casa Pantisano, ad esclusione del Boss, tutti si chiesero cosa era successo e per quale maleficio la ‘ndrina Risucchio era stata distrutta in meno di mezza giornata. Accertato che il responsabile fosse l’uomo (?) nella bara, cominciarono a circolare le opinioni più bizzarre. C’era chi diceva che era un diavolo ingordo più di euri che di anime, chi sosteneva che avesse più di mille anni e ai tempi degli Etruschi avesse partecipato alle Crociate e chi affermava che fosse uno stregone cubano che praticava mortali riti vudù.
In realtà la verità era un’altra. Nel feretro c’era altri che il più noto e conosciuto dei menagrami e jettatori italiani, Rosario Chiarchiaro, reso celebre dal racconto novecentesco “La patente” di Luigi Pirandello, e addirittura trasposto cinematograficamente nel 1954 con l’interpretazione di Totò. Il suo operato, richiesto da Don Bastiano, consisteva solo nel fargli guardare le foto dei cinque membri della ex Famiglia Risucchio e lasciargli “campo libero” per il resto. Il fatto che fosse ancora vivo non stupiva il Boss, consapevole che la Morte avesse paura di avvicinarlo per il rischio di essere trasformata in Vita. Così il “volpigno” vinse la sua ennesima guerra, senza spargimenti di sangue per la sua ‘ndrina, come aveva anticipato,. Chiarchiaro, più ricco di duecentomila euro, partì nel suo feretro trasportato dal carro funebre dell’andata e quasi tutto finì lì. Sì, “quasi tutto”, perché c’era ancora da mettere a posto la questione della gravidanza di Lillina. Anche in questo caso il Capobastone risorse il problema al meglio.
Quarantotto ore dopo chiamò “centoventisette” e gli disse: “Ho ‘ppena acquistato una graziosissima villetta con giardina a Sant’Ilaro sullo Jonio. E appena tu e Lillina vi mariterete, sarà il vostro nito t’amore. Del resto tu sei solo e pari un barbone, tutto condito e senza nessuno che ti lava e ti stira. E in più avrai un fighlio già pronto senza nessuna fatiga. Allora, ti piaci l’idea?”. “Non per mancarvi di rispetto Don -rispose lo sfasciacarrozze-, ma se non mi sentissi di accettare l’offertha?”. “Allora in questo caso -ribatté il Capobastone- richiamo Chiarchiaro e, come dissi la strega al Marchisi del Grillo: “ti faccio siccari i choglioni”. “Non c’è bisogno Boss: accetto!”.
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