Il concetto di “giovani in politica” è spesso utilizzato in modo strumentale e presenta due rischi ricorrenti. Il primo è quello del tokenismo: l’inserimento di qualche volto nuovo in ruoli secondari, a scopo puramente simbolico. Il secondo è ridurre il tema generazionale a una naturale sostituzione dei più anziani con i più giovani, fino a quando i giovani diventano vecchi in un ciclo continuo che ricalca meramente l’alternanza naturale delle generazioni.
In realtà, non ci sono confini netti tra giovinezza e vecchiaia e “siamo sempre giovani o anziani rispetto a qualcun altro”. Come sosteneva il sociologo Pierre Bourdieu, «la jeunesse n’est qu’un mot»: la giovinezza è solo una parola. Non è un “blocco unitario”, ma una condizione momentanea, attraversata differenze economiche, sociali, di genere e di contesto territoriale. Esistono elementi che uniscono le nuove generazioni, ma ce ne sono altre, spesso tragici, che le dividono lungo le linee della disuguaglianza, minando l’idea stessa di una consapevolezza generazionale condivisa.
Anche la categoria “anziano” non ha grande senso, se non consideriamo che le persone cambiano costantemente: crescono ed evolvono sempre. Come ci insegna la biologia, milioni di cellule del nostro corpo muoiono e si rinnovano ogni giorno. Per questo, la distinzione tra giovani e meno giovani non può essere letta in termini binari, né ridotta a un eterno e vacuo scontro generazionale.
Esiste però una questione che non è individuale, ma collettiva: riguarda il tema di una “democrazia escludente”. In molti contesti europei, la scena politica è ancora dominata da uomini, bianchi, di mezza età, in politica da decenni. Nel mondo laburista britannico era popolare l’espressione dura ma efficace: “stale, male and pale”, cioè anziani, maschi e pallidi (bianchi).
Se guardiamo ai numeri, anche in Italia siamo ancora dentro questo modello dominante. Secondo Openpolis, le donne in Parlamento e al governo sono appena il 33,6%, e con le elezioni del 2022 si è registrato un aumento dell’età media dei parlamentari. Inoltre, i cittadini di origine straniera sono quasi assenti. Le nostre assemblee, nazionali e locali, somigliano ancora a camere dei lord ottocentesche.
Questo non significa che queste figure non abbiano consenso. Potrebbero aver registrato esperienze molto positive, che hanno costruito un grande sostegno. Ma potrebbe anche esserci un bias profondo, per cui ci affidiamo ancora a figure che incarnano l’autorità, cioè “il navigato”, in una perenne “sindrome degli antenati”.
A questo si aggiungono due fattori ineludibili. Il primo, più scontato, è demografico: la popolazione invecchia, e le generazioni più mature sono numericamente e politicamente più forti. Ma molte delle decisioni prese oggi avranno effetti nel lungo termine, che ricadranno soprattutto su chi oggi ha meno voce.
Il secondo, meno noto, è culturale. Negli ultimi decenni, grazie al progresso, fortunatamente abbiamo assistito a un allungamento dell’età media e il prolungamento della vita attiva. Le differenze della qualità della vita di una persona di 30 o 65 anni, in termini reali non sono così grandi come un tempo. Spesso chi ha più di 70 anni ha ad esempio un vita culturale più attività di chi ha 40 anni. Inoltre, una persona di 60 anni è oggi nel pieno della propria attività professionale. In generale, l’invecchiamento non è più sinonimo di declino, bensì di trasformazione, e la vera vecchiaia si è spostata avanti di almeno 20 anni rispetto a qualche decennio fa.
Questo è desumibile anche rispetto a un confronto con il passato. Anche se la classe dirigente del novecento ci sembrava paludata, spesso in realtà i vertici politici erano giovani, considerati dirigenti maturi già intorno ai trent’anni.
Questo tema è sicuramente collegato a due fattori ineludibili, che qui non esponiamo integralmente, cioè la precedente forza dei partiti come vivai di energia e formazione, e il maggior impegno politico delle nuove generazioni del passato.
Rimane però il fatto che l’allungamento dell’età media ha modificato profondamente i tempi e le dinamiche dell’alternanza nelle classi dirigenti, rendendo più lenta e meno sensibile la sostituzione generazionale rispetto al passato. Il ricambio spesso richiede cicli di quasi mezzo secolo per essere completamente attuato, in una società in cui le generazioni meno giovani sono fra l’altro sempre più la maggioranza.
Pur nella consapevolezza che rappresentanza non è presenza, serve domandarsi e aprire un dibattito su come garantire oggi un accesso reale alla responsabilità pubblica e soprattutto come rendere il potere di nuovo transitorio, e non permanente.
In questa direzione, ci sono molte resistenze. Anche nel centrosinistra italiano non mancano esempi. È significativo che una figura come Elly Schlein, già eurodeputata, vicepresidente di una grande regione e oggi segretaria di uno dei principali partiti europei, incontri una costante ostilità non tanto per ciò che dice, ma per ciò che rappresenta con critiche paternalistiche da uomini bianchi di mezza età.
Eppure, Elly è un esempio di come si possa rompere questa diga e dare una risposta alle esigenze reali di rinnovamento attraverso la rottura. Ritengo che proprio questa fatica del nuovo, discreta, ostinata, talvolta invisibile, è oggi il solo criterio possibile per misurare chi ha davvero qualcosa da portare nel futuro. Senza vittimismi, senza giovanilismi, ma con il coraggio delle rotture quotidiane. Anche piccole, anche imperfette, ma continue.
*segretario della Federazione del Pd di Cosenza
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