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Omicidio Bruno Caccia, «compatibilità di classe d’arma e di proiettili» con il revolver trovato a casa di Franco D’Onofrio

Dati emersi dalla relazione balistica della Scientifica su delega della Dda. Una prima traccia ma non è la prova definitiva

Pubblicato il: 07/04/2025 – 20:12
di Giorgio Curcio
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Omicidio Bruno Caccia, «compatibilità di classe d’arma e di proiettili» con il revolver trovato a casa di Franco D’Onofrio

TORINO Una «compatibilità di classa d’arma» e dei proiettili calibro .38/357 rinvenuti sulla scena del crimine, «con i proiettili ottenuti dai test di sparo», effettuati con il revolver Smith&Wesson cal. 38. L’arma in questione è quella ritrovata a casa del boss di ‘ndrangheta Franco D’Onofrio, la scena, invece, è quella dell’omicidio del procuratore di Torino Bruno Caccia, ucciso dalla ‘ndrangheta il 26 giugno 1983 in via Sommacampagna, quartiere Borgo Po di Torino. È questa la prima verità emersa dai test effettuati sull’arma che il Gico di Torino aveva rinvenuto e sequestrato la mattina del 24 settembre scorso proprio a casa di D’Onofrio, durante la perquisizione e l’esecuzione del fermo di indiziato dei delitto emesso dalla Distrettuale antimafia di Torino nell’ambito dell’operazione “Factotum”.  

Una prima traccia

Un indizio, al momento, perché «compatibilità» non vuol dire che sia stata identificata l’arma utilizzata per l’omicidio Caccia. Nella relazione tecnica redatta dalla Polizia Scientifica, su delega della Procura della Repubblica di Torino e firmata dal pm Paolo Toso, gli accertamenti balistici parlano di «un andamento destroso dei proiettili che presentano 5 signature». Insieme alla pistola lo scorso settembre erano state trovate anche 15 cartucce calibro 38, utilizzate per effettuare il test di sparo. I proiettili, intanto, sono di produzione serba (4 Privi Partizan), italiana (8 GFL) e statunitense (3 Western Cartdrige). Il revolver è stato fabbricato negli Stati Uniti il 22 novembre del 1978, poi è stato importato in Italia dalla ditta “Armi & Sport” e portata al banco di prova, in Italia, nel febbraio del 1979. Poi veniva acquistata da un’armeria – cessata già nel 1990 – a Moncalieri nell’aprile del 1979. Ed è questo uno dei “campanelli d’allarme” degli inquirenti. Moncalieri, infatti, è la città dove D’Onofrio risiede e, secondo l’accusa, il luogo considerato il suo «feudo criminale».

Franco D'Onofrio torino

Franco D’Onofrio (cl. ’55) di Mileto, già coinvolto nell’inchiesta “Minotauro”, libero dopo aver scontato la sua condanna emessa proprio al termine del processo contro le cosche di ‘ndrangheta in Piemonte, era stato di nuovo arrestato su ordine del gip proprio per la nuova inchiesta torinese che ha messo nel mirino il territorio di Carmagnola e le attività della ‘ndrangheta sul territorio e strettamente connesse alla “casa madre” calabrese. Qui, in quest’angolo piemontese dove il sodalizio è presente e organizzato da più di un decennio, frutto di una forte immigrazione di famiglie calabresi, provenienti dal vibonese e, in particolare, da Sant’Onofrio, regno indiscusso del potente clan Bonavota. Per gli inquirenti non c’è alcun dubbio: si tratta di un’articolazione appartenente alla rete unitaria della ‘ndrangheta del Piemonte e lo confermano i rapporti tra i suoi appartenenti e gli affiliati ad altre articolazioni piemontesi.

Il sequestro delle armi

Il 24 settembre i finanzieri andarono quasi a colpo sicuro: durante la fase investigativa, infatti, la pg aveva ascoltato alcune conversazioni i cui protagonisti erano proprio D’Onofrio e un altro soggetto che sarà individuato in Claudio Russo, uomo «al servizio di Francesco D’Onofrio» scrivevano i pm Paolo Toso, Marco Sanini e Mario Bendoni nel fermo di indiziato di delitto.  Come annotava la pg, infatti, il legame con D’Onofrio risalirebbe «almeno ad un ventennio fa» e sarebbe nato nell’ambito «dell’eversione e dell’esecuzione, da parte di soggetti legati al mondo del terrorismo, di rapine».
In quelle conversazioni, infatti, D’Onofrio e Russo fanno riferimento ad un’arma «occultata all’interno della medesima abitazione». Dall’ascolto della conversazione la pg intuisce che i due parlavano di un «nascondiglio temporaneo» e della necessità di spostarla per via della presenza evidentemente «pericolosa» di alcuni operai impegnati in dei lavori. D’Onofrio, quindi, si sarebbe adoperato poi per spostare l’arma all’interno del locale cantine condominiale, uno spazio “comune” inutilizzato. L’idea, come era emerso dall’inchiesta, era quella di «ricavare una fessura all’interno della parete» e «realizzare un’intercapedine all’interno della quale occultare l’arma da fuoco».

Il nuovo fascicolo

Pochi giorni fa la Procura di Milano aveva riaperto l’inchiesta sull’omicidio del procuratore di Torino, puntando il dito contro D’Onofrio, già indagato in passato. In quel caso la Procura di Milano aprì il fascicolo sulla base di una doppia chiamata in correità a carico di D’Onofrio formulata da due diversi collaboratori di giustizia: Andrea Mantella e Domenico Agresta. Quest’ultimo, in particolare, disse ai magistrati: «Mio padre mi aveva detto che lui (riferendosi a D’Onofrio) e Schirripa si erano fatti il procuratore e che sparavano che manco li cani!». Poi, però, non ci furono ulteriori sviluppi. Almeno fino ad adesso.  (g.curcio@corrierecal.it)

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