Nei contesti mafiosi «non ci sono regole di amore, ma regole di potere». «L’amore per i figli per tante donne è stata la chiave di volta». A parlare è il giudice Roberto Di Bella, ideatore del protocollo nato a Reggio Calabria nel 2012 con l’obiettivo di offrire nuove occasioni di vita a tutti quei minori e alle loro madri, provenienti da contesti malavitosi, sottraendoli da un destino all’apparenza segnato. Nel podcast “Orizzonti liberi”, vengono raccontati i progetti più importanti che Libera, l’associazione fondata da don Luigi Ciotti, ha realizzato sui territori. Storie di riscatto contro mafie e corruzione che raccontano il coraggio di ribellarsi alla forza oppressiva di organizzazioni criminali senza scrupoli: tra quelle citate nell’ultima puntata, dal titolo “Una scelta libera”, ci sono le storie di due donne, Lea Garofalo e Barbara Corvi, le cui morti sono legate a contesti di ‘ndrangheta. «La mafia ha confiscato anche la nostra vita, non siamo persone libere. Non vogliamo che i nostri bimbi crescano in questa subcultura». Sono le parole delle donne che si sono rivolte a don Ciotti per cercare una via d’uscita da un contesto che le aveva annullate come donne e come esseri umani, e che stava rovinando la vita ai loro figli. «Non ce la facevano più – racconta don Luigi – e hanno trovato la forza di dire basta».
«In 25 anni mi sono trovato a processare prima i papà e poi i figli, tutti i minorenni, appartamenti alle storiche famiglie di ‘ndrangheta del territorio. Questo vuol dire che in quei contesti la cultura di mafia si assorbe, si eredita addirittura. Da qui nasce il progetto, l’idea del progetto perché in tanti anni abbiamo processato ragazzi per reati gravissimi. Ci siamo accorti che gestire queste vicende solo da un punto di vista penale spesso era troppo tardi, non riuscivamo a cambiare le traiettorie di vita di questi ragazzi segnati da un destino apparentemente ineluttabile, così abbiamo deciso di anticipare la soglia degli interventi, intervenire prima che i ragazzi commettessero reati. La ‘ndrangheta è un’organizzazione criminale a struttura familiare, questo vuol dire che quasi tutti i suoi componenti appartengono alla famiglia biologica, e questa struttura condiziona pesantemente la crescita dei bambini e degli adolescenti», racconta nel podcast il magistrato Roberto Di Bella, oggi presidente del Tribunale per i minorenni di Catania. Appena arrivato a Reggio Calabria, alla guida del Tribunale per i minori, Di Bella capisce che la situazione è molto più complessa di quanto potesse immaginare: «Mi sono imbattuto subito in un mondo che non fa sconti a nessuno, un mondo anche di tribalità, di vicende terribili. Erano gli anni successivi seconda guerra di mafia reggina, abbiamo avuto minorenni coinvolti anche in omicidi di rappresentanti delle forze dell’ordine. Nel duplice omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo, gli autori furono un ragazzo di 19 anni e un minorenne di 17. Omicidi nel corso delle faide».
«Io non riesco più a controllare la pericolosità di mio figlio, che manipolato dal padre e dal nonno, persone pregiudicate e molto pericolose. Dopo la denuncia il mio ex marito mi ha fatto sapere tramite mio figlio che mi brucerà viva. La prego, allontani mio figlio e lo mandi in una regione diversa dalla Calabria, dove possa sottrarsi all’influenza negativa proveniente dal contesto ambientale e familiare». E ancora: «Chiedo di essere aiutato se possibile ad andare via con mio figlio. Faccio questo sacrificio personale perché vorrei assicurare ai miei figli una vita serena, che restando in Calabria sicuramente non avrebbero». A scrivere a Di Bella è una donna, una madre che in una lettera esterna tutta la sua disperazione per non riuscire ad allontanarsi da un contesto che la vede prigioniera. Una richiesta d’aiuto disperata, l’unica possibilità per sperare di regalare ai propri figli una vita diversa.
Nasce così, da un’intuizione di Di Bella, il progetto “Liberi di scegliere”. «Con l’obiettivo ben preciso – spiega il magistrato – di consentire a questi ragazzi di fare esperienze diverse, dotarli degli strumenti culturali per renderli liberi di scegliere il loro destino, da qui nasce il nome dell’orientamento giurisprudenziale».
All’inizio non è stato facile. «Ci hanno criticato inizialmente, ci dissero che facevamo confisca di figli, deportazioni di minori. – racconta Di Bella – Ci hanno paragonato alle magistrature degli stati totalitari. Nulla di tutto questo, perché i provvedimenti sono sempre temporanei e la loro efficacia cessa al compimento della maggiore età. Sono provvedimenti adottati caso per caso nelle situazioni di grave pregiudizio. Quello che è accaduto di inaspettato è che ci siamo imbattuti nelle mamme di questi ragazzi, quando si sono rese conto che il nostro obiettivo era di tutela e non sanzionatorio e punitivo nei confronti delle famiglie, non si sono opposte più, con la speranza, talvolta inconfessabile, di sottrarli a un destino al quale non avevano le forze per contrapporsi».
«Questo progetto – spiega Di Bella – ben presto è diventato un protocollo governativo “Liberi di scegliere”, stilato nell’ultima versione del 26 marzo 2024, da ben cinque ministri, da Libera – che fa da capofila, da altre realtà associative, dalla Conferenza episcopale italiana fino adesso ha finanziato il progetto con i fondi dell’Otto per mille». Il protocollo, rinnovato e ampliato dai ministeri di Giustizia, Interno, Istruzione, Università e Famiglia è stato aggiornato con un incremento dei finanziamenti, un ampliamento della rete di associazioni a sostegno e il coinvolgimento di nuovi uffici giudiziari: a quello di Reggio Calabria si aggiungono quelli di Catania, Palermo e Napoli. E adesso potrebbe fare da apripista al progetto di una legge per la tutela di minori e madri che escono dai contesti mafiosi.
Racconta Di Bella: «Abbiamo trattato circa 200 minorenni, 30 donne sono andate via, 7 di loro sono diventate collaboratrici o testimoni di giustizia, abbiamo avuto anche importanti collaborazioni di uomini, di boss detenuti figure apicali sia della ‘ndrangheta che della mafia siciliana che hanno deciso di collaborare proprio dopo gli interventi sui figli». «La rete che abbiamo organizzato con Libera serve soprattutto per le donne che non possono entrare nei programmi di protezione, non tutte hanno apporti collaborativi da dare o le dichiarazioni che possono rendere spesso non hanno una grande rilevanza penale, quindi non possono entrare nei programmi della legge sui collaboratori e quella sui testimoni di giustizia, quindi queste donne sono prive di tutela».
Da questo punto di vista c’è un vuoto normativo che non gli consente di accedere a programmi di protezione. E in diverse occasioni il presidente e fondatore di Libera, don Luigi Ciotti, ha lanciato un vero e proprio appello: «Bisogna che la politica faccia in fretta, è una cosa urgente, ci sono tante donne che rischiano». (m.ripolo@corrierecal.it)
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