Natalina teneva le fila è un bellissimo libro, edito da Albatros, scritto da Giuseppe Femia, calabrese di Locri. Femia, giovane psicoterapeuta di spessore, psicodiagnosta di uno dei più importanti centri di Roma, l’Apc e allievo di Francesco Mancini, scrive una narrazione a tratti commovente intorno alle figure immaginarie di Natalina e di Maria. È una sorta di specchio dell’anima nel quale l’io narrante riflette anche le sue angosce, affrontando il problema del lutto e la difficoltà di accettazione che si pone dinanzi a ognuno di noi. Dal lutto vero e proprio alle perdite affettive e dolorose che accompagnano la nostra quotidianità. Femia pone diversi temi nel libro: la rabbia, la sofferenza, l’accettazione, il valore salvifico della scrittura, lo stesso che fa dire a Freud,” scrivere mi ha salvato la vita” o a Sartre, ne Il Muro, ” che l’accettazione è il percorso doloroso verso la salvezza”. In mezzo si avverte la bellezza della sua città nativa, Locri, e di un segno simbolico e grecanico che per decenni è stato oscurato dai tormenti e dalle angosce di chi con la prepotenza ha tenuto in ostaggio una terra colta e ricca comunque di anticorpi. Se anche il libro non affronta direttamente questo tema, traspare il senso di un vissuto identitario che è presenza antropologica. E che affronta nei nostri demoni la catarsi che la letteratura offre.
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