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l’inchiesta

Lo strapotere dei Labate e il controllo su Gebbione. I “Ti mangiu” tra i «più temibili» a Reggio Calabria

Danneggiamenti, intimidazioni, estorsioni. «Un predominio globale». Al vertice Michele e Francesco Salvatore Labate

Pubblicato il: 14/05/2025 – 11:12
di Mariateresa Ripolo
Lo strapotere dei Labate e il controllo su Gebbione. I “Ti mangiu” tra i «più temibili» a Reggio Calabria

REGGIO CALABRIA Tra le cosche «più temibili nel panorama cittadino», detentrice di «un predominio globale» in particolare nel quartiere Gebbione di Reggio Calabria e nella zona sud della città. E il soprannome “Ti mangiu” con cui è conosciuta la cosca di ‘ndrangheta Labate dice molto del modo in cui si muove sul territorio: «Simbolico dell’aggressività del sodalizio, dato ormai storicamente acquisito».
Danneggiamenti, intimidazioni, estorsioni, controllo delle attività economiche, «governo» e controllo della criminalità comune riconducibile alla comunità Rom insediata sul territorio della cosca. Tutte attività dimostrate dalle inchieste che hanno, negli anni colpito, il clan reggino: i procedimenti “Larice”, “Gebbione” e “Archi”, poi ancora “Heliantus” e infine ieri gli arresti frutto di un’inchiesta della Dda di Reggio Calabria prosecuzione di quest’ultima. 

dda di reggio procuratore lombardo

L’organizzazione

Al vertice, in qualità di promotori, dirigenti e organizzatori dell’associazione c’erano Michele e Francesco Salvatore Labate. Secondo l’accusa i due svolgevano compiti direttivi e organizzativi anche durante la detenzione in carcere, dove beneficiavano delle «risorse economiche attinte dalla cassa comune della cosca per il proprio mantenimento». Tra i compiti anche quello di individuare le imprese da sottoporre a estorsione e ordinare «danneggiamenti ed altre azioni ritorsive». Paolo Labate cl. 85 è considerato il principale collaboratore del padre Michele Labate e suo rappresentante sul territorio durante la carcerazione. Il 40enne, secondo quanto emerso dalle indagini, veicolava messaggi e ambasciate e «manteneva i rapporti con gli imprenditori legati alla cosca». 
Ad Antonino Laganà, collaboratore dei fratelli Francesco Salvatore e Michele Labate era stato affidato, tra gli altri compiti, quello di mantenere i rapporti con i rappresentanti della comunità rom, «al fine di consentire alla cosca il controllo sulla microcriminalità operante sul territorio».
Le indagini avrebbero poi dimostrato che tramite Michele e Paolo Labate il clan avesse stipulato con l’imprenditore Filippo Foti (indagato, per il quale la Procura aveva chiesto la misura cautelare in carcere, respinta dal gip) «un patto sinallagmatico, sulla base del quale la cosca riusciva ad infiltrarsi occultamente nel settore della grande distribuzione alimentare e in altri proficui settori imprenditoriali». Un “patto” che aveva permesso al clan reggino di accrescere la propria forza economica, riciclando i proventi illecitamente accumulati nel corso degli anni, espandendo la propria rete relazionale e eludendo le indagini patrimoniali dell’Autorità Giudiziaria e i conseguenti sequestri mentre l’imprenditore, secondo l’accusa, otteneva quale corrispettivo protezione.

Il controllo sul quartiere Gebbione

Il quartiere Gebbione era la base logistica, il fulcro del potere del clan. Un controllo tanto capillare che – si legge nell’ordinanza – «dire Gebbione – in gergo mafioso – significa inevitabilmente evocare e alludere ai Labate». 
Un potere a tutto campo sul territorio di riferimento, che veniva mantenuto tramite la violenza, venivano infatti ordinati «pestaggi e brutali aggressioni nei confronti dei soggetti non allineati». Ma non solo. Quella dei Labate, secondo quanto emerso, è un’associazione armata, «avendo i partecipanti la disponibilità di armi, anche occultate e tenute in luoghi di deposito, per il conseguimento delle finalità dell’associazione». (m.ripolo@corrierecal.it)

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