VIBO VALENTIA Un’associazione dedita al commercio illecito di prodotti petroliferi di scarsa qualità, ottenuti miscelando abilmente oli a carburante, e all’evasione di Iva e accise al fine di massimizzare i guadagni. È quanto la Procura contesta a sette imputati del processo Petrolmafie che, nel rito abbreviato arrivato in Cassazione, si sono visti annullare con rinvio la propria pena inflitta dalla Corte d’Appello di Catanzaro. Bisognerà attendere un nuovo giudizio, dunque, per Salvatore Giorgio (7 anni, 9 mesi e 20 giorni); Salvatore Rigillo (7 anni, 1 mese e 3 giorni); Giovanni e Armando Carvelli (oltre 3 anni a testa); Alessandro Primo Tirendi (6 anni, 7 mesi e 20 giorni); Orazio Romeo (3 anni e 10 mesi) e Vincenzo Zera Falduto (2 anni, 9 mesi e 20 giorni), come stabilito dagli ermellini nella sentenza che invece ha portato alla condanna definitiva di Francescoantonio Anello (cl. ’89), Pasquale Gallone (cl. ’60), Giuseppe e Daniele Prestanicola.
Secondo l’accusa, gli imputati avrebbero fatto parte di un’associazione che mirava a guadagnare illecitamente nel settore petrolifero. In particolare, sono accusati di essersi riforniti di prodotti petroliferi di scarsa qualità, poi miscelati con carburante in modo da renderli simili per proprietà al gasolio per auto. Il prodotto veniva poi trasferito «con false documentazioni» in depositi a Maierato, nel Vibonese, e attribuendolo a società «prive di reale operatività» veniva poi ceduto a stazioni di servizio. Giorgio e Rigillo vengono individuati dall’accusa come «promotori e organizzatori» del disegno criminoso insieme ad Antonio e Giuseppe D’Amico. A Romeo viene contestato «di aver messo a disposizione della consorteria le società del proprio gruppo, al fine di agevolare lo smercio del carburante contrabbandato dalla associazione». Tirendi viene ritenuto figura di raccordo per «l’organizzazione, nel dettaglio, ed alla attuazione delle fasi di ricezione» nei depositi del prodotto. Infine, i Carvelli e Falduto sono individuati come «meri partecipi» all’associazione con compiti per lo più nella logistica.
Il gruppo si sarebbe avvalso di società “cartiere” per «emettere fatture per operazioni inesistenti, in modo da celare la reale provenienza dei prodotti e, al contempo, consentire l’evasione delle imposte». L’accusa si basa principalmente su conversazioni intercettate e sulle dichiarazioni confessorie rese da Pietro Alberto Agosta, che avrebbe partecipato alle attività illecite del gruppo. Secondo la Cassazione, regge la sentenza della Corte d’Appello per quanto riguarda l’esistenza dell’associazione, rigettando così i ricorsi dei legali difensori che la volevano derubricata a concorso di persone nel reato continuato. L’associazione, secondo gli ermellini, sussiste per elementi come l’«organizzazione di mezzi e la ripartizione dei ruoli», come «la spartizione dei costi tra i soggetti operanti», «l’esistenza di una cassa comune e di un prezziario concordato». I giudici si concentrano, invece, sulla possibile riqualificazione di uno dei reati fine, ovvero quello di falso legato alla falsificazione dei Das, documenti necessari per il trasporto. In questo caso per la Cassazione deve essere approfondita la questione del timbro dell’Agenzia delle Dogane: nei capi d’imputazione in cui è citato la pena deve essere riqualificata, nei casi in cui non viene specificata la presenza o meno del timbro contraffatto gli ermellini hanno disposto l’annullamento con rinvio al fine di ulteriori accertamenti. Per la Cassazione si tratta di reati che «avranno indubbiamente incidenza» sulla pena finale e che quindi dovranno essere rivalutati dalla Corte d’Appello. (ma.ru.)
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