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le ombre sull’omicidio

Bruno Caccia, il magistrato ucciso dalla ‘ndrangheta: la “parziale” verità e il ruolo dei servizi segreti

Ieri il procuratore è stato ricordato a Torino a 42 anni dal suo omicidio. L’amarezza delle figlie per la «poca verità». L’avvocato Repici: «Era monitorato dal Sid»

Pubblicato il: 27/06/2025 – 17:43
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Bruno Caccia, il magistrato ucciso dalla ‘ndrangheta:  la “parziale” verità e il ruolo dei servizi segreti

TORINO «Vedrete cosa verrà fuori tra qualche giorno, qualcosa di davvero grosso. Ci sarà una bella sorpresa». Nessuno ha mai capito a cosa si riferiva Bruno Caccia parlando con suo figlio Guido di “malaffare”. Era il 26 giugno del 1983, il procuratore a Torino, un uomo schivo e riservato sul proprio lavoro, aveva riferito in famiglia quella frase criptica, poche ore prima che venisse ucciso da un commando della ‘ndrangheta. Il magistrato, quella sera, è stato raggiunto da 14 colpi di pistola sparati da due uomini a bordo di un auto. Dalle sentenze dietro l’omicidio ci sarebbe stata la malavita calabrese che in quegli anni si stava radicando sul territorio piemontese. Quando ancora si negava la presenza della criminalità organizzata al Nord, Bruno Caccia già la contrastava, cercando di «estirpare il bubbone» della ‘ndrangheta calabrese. Il magistrato è stato ricordato ieri, alla presenza delle due figlie Paola e Cristina, nel Palazzo di Giustizia di Torino che oggi porta il suo nome.

La ricostruzione e le indagini

Il 26 giugno di 42 anni Bruno Caccia, dopo un’intensa giornata di lavoro fuori Torino, uscito di casa per portare a passeggio il cane, viene affiancato da due uomini: 14 i colpi di pistola, un agguato fatale per il magistrato. Le indagini di quegli anni vertono sul terrorismo non mafioso, ma alcune dichiarazioni successive portano alla pista ‘ndranghetista: per la Cassazione è stato Domenico Belfiore il mandante, mentre a premere il grilletto Rocco Schirripa, entrambi ritenuti esponenti della ‘ndrangheta torinese. Fu il collaboratore di giustizia Francesco Miano, esponente della mafia catanese, a indirizzare le indagini. Ma sul suo omicidio restano tante ombre: i depistaggi iniziali, le strane rivendicazioni dei gruppi terroristici (come le Brigate Rosse, contro cui Bruno Caccia firmò una delle prime inchieste), il ruolo dei servizi segreti. «Prima che morisse era già stato sotto l’attenzione dei servizi segreti» ha detto ieri, in un incontro a Torino, l’avvocato della famiglia Caccia Fabio Repici. «Tra il 1967 e il 1970 il Sid monitorò Bruno Caccia pensando fosse un magistrato con orientamento “comunista”, perché non serviva il potere ma pensava solo al pubblico interesse. Gli stessi servizi segreti che poi hanno condotto le prime indagini dopo l’omicidio». «Se si decide – continua l’avvocato – di affidare la ricerca della verità ai servizi segreti si decide di non avere tutta la verità. Nella storia di questo paese qualunque crimine è stato depistato dai servizi segreti».

Ieri il ricordo di Bruno Caccia a Torino

Le nuove indagini e una parziale verità

A 42 anni di distanza resta, in effetti, una “parziale” verità. Lo sa bene anche la procura di Milano che ha riaperto le indagini sul suo omicidio, anche grazie al ritrovamento casuale di una pistola a casa di Francesco D’Onofrio, ritenuto esponente della ‘ndrangheta e che già in passato era stato indicato da due collaboratori di giustizia come membro del commando che uccise Caccia. Poi nessuna novità, fino al ritrovamento dell’arma che potrebbe essere “compatibile” con quella usata nell’agguato. D’Onofrio ha anche un passato nei Colp, i Comunisti organizzati per la liberazione proletaria. Resta poi da chiarire il vero movente all’origine dell’omicidio, che non può essere “sminuito” con l’accezione di un «magistrato integerrimo con cui non si poteva parlare». D’altronde, si tratta «dell’omicidio più eccellente della storia di Torino», come ha ricordato sempre nell’incontro di ieri l’avvocato Repici, che di fatto ha cambiato gli equilibri della città piemontese, in quel periodo fulcro di terrorismo e criminalità organizzata. E di “parziale” verità ha parlato anche la figlia Paola Caccia, nell’incontro organizzato negli uffici della Procura che portano il suo nome a Torino, dal movimento delle Agende Rosse: «Abbiamo avuto poca verità in questi 42 anni, ma resto fiduciosa che possa venire ancora fuori qualcosa. Magari per dei ripensamenti com’è successo in altri processi». (ma.ru.)

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