La stagione sospesa del Catanzaro. Le due identità del Cosenza calcio
Il progetto Aquilani non decolla: pochi progressi e un blocco che va oltre i risultati. Le due facce dei Lupi: squadra e club. Crotone, la legge della pazienza

Due vittorie in C e una sconfitta in B. Si è concluso così l’ultimo turno di campionato delle calabresi. Il Catanzaro, sempre più in cerca di una sua identità, ha perso per la prima volta a Monza, mentre Crotone e Cosenza sorridono ancora grazie alle vittorie convincenti contro Picerno e Audace Cerignola.
La stagione sospesa del Catanzaro
A Catanzaro, si sa, si mastica calcio con passione, con abitudine, con un retrogusto forte che si imprime sul palato. Ma anche, ultimamente, con quella smorfia amara di chi assaggia qualcosa che sa di incompiuto. Di incompleto. Di sospeso. Un anno fa, a questo stesso punto del calendario, Fabio Caserta guidava una squadra che inciampava ma non cadeva del tutto. Il suo Catanzaro zoppicava, ma nel frattempo lasciava intravedere spiragli di quella bellezza che poi avrebbe portato fino alla soglia della serie A. Oggi, invece, l’analogia con il passato sembra più un tentativo di consolazione che una reale fotografia del presente. E se la statistica può far comodo per dormire sonni meno agitati, è il campo a raccontare un’altra verità. Sabato a Monza si è vista la differenza tra chi sa come si vince e chi ancora non ha capito nemmeno da dove si comincia. E non per una questione di valori assoluti: i giallorossi non erano nettamente inferiori agli avversari, se non sul piano della cattiveria e della consapevolezza. Il primo tempo, con il guizzo di Cissè e qualche timido tentativo di costruzione, ha illuso. Poi, come accade ormai con una certa regolarità, la luce si è spenta. E non si è più riaccesa. Aquilani ha le sue attenuanti: una difesa che non regge, un centrocampo evanescente, uomini adattati più che scelti. Ha detto che il modulo che avrebbe voluto utilizzare non è praticabile coi giocatori attuali. Ma se vuole restare in sella, sarebbe il caso di trovare rapidamente la soluzione ideale. Non è facile, certo, ma aspettare che sia la realtà ad adattarsi alle idee è un lusso che in serie B si paga a caro prezzo. Non è solo un problema di numeri o geometrie, è una questione di identità. Questo Catanzaro, al di là delle partite, sembra non sapere chi è. Né chi vuole diventare. È una squadra che ha paura di osare. E qui arriviamo al paradosso: dopo sei pareggi consecutivi, proprio nella prima sconfitta forse si è capita la dimensione reale della crisi. Una crisi che, forse, è prima di tutto psicologica. Che si legge sul volto di Aquilani (espulso, frustrato, disilluso) e nelle gambe dei giocatori, appesantite più dal timore che dalla fatica. La frase del tecnico a fine gara – «purtroppo non sappiamo ancora cosa vuol dire vincere» – è più che una constatazione: è un allarme.
Crema: Cissè, sempre lui, ancora lui. Un’altra rete, un altro lampo. È giovane, ha talento, è l’unico che sembra giocare con quella sfrontatezza che il calcio pretende da chi vuole fare la differenza. Ma anche lui, dopo l’illusione iniziale, si è spento. E il suo talento rischia di diventare una scintilla in un campo di stoppa bagnata.
Amarezza: il volto di Aquilani. Non più quello del tecnico giovane, elegante e pensante, ma quello di un uomo che non riesce ancora a tenere insieme i pezzi del suo progetto. Dietro quell’espulsione c’è frustrazione, c’è delusione, c’è un sentimento quasi di impotenza. E forse anche l’inizio del dubbio: sono io il problema? È la squadra? È il progetto? Tutto lecito, tutto umano. Ma il tempo per trovare risposte sta finendo.

Le due identità del Cosenza
A Cosenza mentre i ragazzi di Buscè giocano, sudano, lottano e soprattutto vincono – quattro successi e un pareggio nelle ultime cinque – il presidente Guarascio gioca un’altra partita, tutta personale, che somiglia sempre più a una fuga dal confronto vero e dalle sue responsabilità sulla rottura che si è creata con la città. L’ultima vittoria a Cerignola, contro una squadra che aveva recentemente fermato Salernitana e Catania, non è stata solo meritata: è stata l’ennesima dimostrazione che questo gruppo di calciatori ha un’anima. Una rosa corta, limitata, costruita con più speranza che programmazione, sta andando oltre i propri mezzi grazie alla voglia di non arrendersi. E vedere all’opera in C elementi come Florenzi, Garritano, Mazzocchi, è un piacere anche quando si soffre. Perché, in fondo, è lì che si misura la dignità di una squadra: nella fatica, non solo nello spettacolo. Ma nonostante questo, lo stadio San Vito-Marulla resta vuoto. E non per disaffezione, ma per protesta. Un sentimento condiviso, profondo, che la recente assemblea pubblica al cinema San Nicola ha certificato con chiarezza disarmante: la città è stanca. Stanca di promesse non mantenute, di proclami ripetuti a vuoto, di un presidente che dice di voler cedere ma poi risponde picche (via Pec) a chi si fa avanti. E come se non bastasse, a mettere altro fumo su una realtà già offuscata, è arrivata la presentazione del nuovo direttore generale Salvatore Gualtieri. Uomo esperto, curriculum di spessore, buone maniere e toni pacati. Ma anche lui, al debutto, ha restituito l’ennesima fotografia surreale di un club che sembra vivere in una dimensione alternativa. Le reazioni? Incredulità, perplessità, sconforto. In molti hanno avuto la netta sensazione di assistere non tanto a una ripartenza, ma all’ennesimo tentativo di mascherare lo stallo con una facciata pulita. A Gualtieri, come a chiunque approdi in un ambiente così complicato, non si può chiedere di non essere aziendalista. Ma forse lui è andato persino oltre. Dipingere uno scenario positivo, parlare di futuro con ottimismo (chiamato “Cosenza Identity”), quando fuori la piazza brucia di frustrazione, equivale a non vedere – o non voler vedere – la realtà. E questo – col massimo rispetto per un uomo navigato qual è l’ex Crotone e Frosinone – fa effetto.
Crema: c’è qualcosa di straordinario, oggi, nel vedere questo Cosenza. Non per i risultati, quelli sono già notevoli, ma per l’identità (la squadra sì che ne ha) che ha saputo costruire nonostante tutto. Buscè ha ridato senso al campo, e questo dovrebbe bastare per riportare la gente al San Vito-Marulla. In un contesto normale. In una società normale. In una città che non fosse continuamente delusa e allontanata dalla sua passione più grande.
Amarezza: l’amarezza, purtroppo, resta sempre la stessa: una società che si racconta da sola, si ascolta da sola, si crede da sola. L’unica narrazione che continua da più di 14 anni a questa parte, è quella di un futuro radioso, che però, non è mai cominciato.

Crotone, la legge della pazienza
Nel calcio, più che in altri ambiti, si applaude spesso per riflesso. Per cortesia, per abitudine, per convenzione. Ma quando il pubblico dello Scida si è alzato in piedi dopo la sconfitta con la Casertana, nessuno stava recitando. Non c’era protocollo, solo pancia e cuore. Un gesto raro, forse troppo raro, che nel calcio moderno rischia di essere scambiato per follia. E invece era lucidità. Perché la squadra di Emilio Longo aveva perso, sì, ma aveva anche mostrato segnali chiari, inequivocabili: una rotta tracciata, un’identità riconoscibile, un’idea che camminava sulle gambe dei suoi uomini. La risposta, per chi ancora non ci credeva, è arrivata puntuale contro il Picerno: un Crotone che ha smesso di fare sconti e ha deciso di parlare con i fatti. Quelli pesanti. Netta, pulita, chirurgica: la vittoria di sabato scorso è figlia legittima di un progetto tecnico che comincia finalmente a far brillare le sue gemme. Niente fuochi d’artificio, ma lavoro, organizzazione e, soprattutto, carattere. La differenza, oggi, la fa la maturità. Che non è un concetto astratto, ma un atteggiamento collettivo. Il Crotone si muove come un organismo compatto, capace di soffrire senza perdere la testa e colpire quando serve. È una squadra che ha imparato dai propri errori, che sa che ogni minuto pesa, che i punti si costruiscono nei dettagli. E se c’è un simbolo che racconta tutto questo, è senza dubbio Guido Gomez. Sette gol, sì, ma anche leadership, intelligenza, spirito di sacrificio. Intorno a Gomez, poi, si muove un gruppo che cresce e si affina. Zunno sta trovando continuità e convinzione: a volte sembra avere una marcia in più. Vinicius è un altro che sta cominciando a prendere confidenza con i tempi e i ritmi della squadra. Murano ha voglia di incidere. Ma è la retroguardia, sorprendentemente, a dare le certezze maggiori: ordinata, tosta, meno incline a distrazioni infantili. La mano di Longo è visibile ovunque: nella postura tattica, nella gestione delle rotazioni, nella capacità di tenere tutti sul pezzo. E se il talento lo mettono i giocatori, è l’allenatore che ha cucito il vestito giusto per ciascuno.
Crema: lo abbiamo detto e lo ripetiamo senza timore di essere monotoni: Gomez è la ciliegina, ma la torta è buona per davvero. Il Crotone sta trovando equilibrio: un mix riuscito tra esperienza e freschezza, tra ordine e spregiudicatezza. Non è (ancora) perfetto, ma è più concreto. C’è una voglia collettiva di alzare l’asticella e di smettere di accontentarsi.
Amarezza: le recriminazioni non servono, ma qualche rimpianto è legittimo. Perché se è vero che i passi falsi casalinghi contro Benevento e Casertana non sono stati il frutto di prestazioni disastrose, è anche vero che oggi mancano punti che pesano. La vetta, lontana cinque lunghezze, per ora, resta una suggestione più che una realtà, e il calendario non perdona le ingenuità. (f.veltri@corrierecal.it)

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