Chiusura dei supermercati “Rosso Tono” a San Giovanni in Fiore: esplode la vertenza
Chiusi i due punti vendita: 14 dipendenti restano senza lavoro. I sindacati chiedono la cassa integrazione e un tavolo regionale urgente. Valentino (Filcams Cgil): «Dipendenti da salvare»

SAN GIOVANNI IN FIORE Salvare i lavoratori. È l’obiettivo dei sindacati che assistono i 14 dipendenti dei due supermercati “Rosso Tono” di San Giovanni in Fiore giunti alla chiusura. Lo chiarisce Giuseppe Valentino, segretario generale della Filcams Cgil Calabria.
Da un lato c’è la parte forte, il gestore Nuova Calabria, che ha deciso di cessare le due attività presenti nel Comune silano e di restituire alla società Cogio il ramo d’azienda per il punto vendita di Crotone, dove altri dipendenti, più di 15, sono in attesa di conoscere il loro futuro. Dall’altro lato c’è il contraente debole, cioè i lavoratori, molti dei quali sopra i 50 anni e dunque difficilmente ricollocabili.
Per il personale degli esercizi di San Giovanni in Fiore sono in arrivo le lettere di licenziamento, ma Cgil, Cisl e Uil mantengono il fronte unitario per garantire tutti i diritti dei rispettivi destinatari, che non potrebbero essere licenziati su due piedi poiché avrebbero ferie da godere e, a quanto sembra, dicono loro parenti, «importanti spettanze da ricevere».
«Con il recapito della lettera di licenziamento, si apre ufficialmente la vertenza su San Giovanni in Fiore. Naturalmente – spiega Valentino – noi contesteremo questa decisione, spingeremo per discutere al più presto il caso nella Commissione tripartita, perché la Regione Calabria impieghi tutti gli strumenti possibili nell’ambito delle politiche attive e affinché sia attivata la cassa integrazione straordinaria, in modo da dare tempo, ossigeno e serenità ai lavoratori e da agevolare un eventuale subentro nella gestione dei supermercati. Sono già in corso più interlocuzioni per verificare le possibilità che altre imprese portino avanti le due attività locali». Al riguardo ci sarebbero stati dei sopralluoghi da parte di grosse e piccole aziende che operano nel campo della distribuzione alimentare. Intanto, i lavoratori dei punti vendita di San Giovanni in Fiore sono scossi, stanchi, preoccupati. Diversi di loro sono in servizio da oltre 25 anni ed erano stati informati all’improvviso del loro destino, «senza – raccontano alcuni clienti – segnali e comunicazioni precedenti».
«Noi – assicura Valentino – continuiamo a impegnarci per evitare il licenziamento e lo sfascio». Anche perché, a San Giovanni in Fiore, nel cuore della Sila Grande, l’emigrazione non è mai finita e lo spopolamento è un problema aperto dagli inizi del Novecento, sia pure con fasi cicliche.
Il punto è che a queste latitudini i salari, il diritto del lavoro e l’economia sono spesso distorti, se non addirittura “drogati”. San Giovanni in Fiore fu uno dei Comuni della sperimentazione del Reddito minimo di inserimento, distribuito a pioggia – secondo un rapporto dell’allora ministero del Welfare – a oltre 1100 destinatari, anche in virtù di finte separazioni coniugali. Parallelamente, però, molti lavoratori alle dipendenze di privati avrebbero firmato buste paga gonfiate e restituito parte del salario ai loro datori. Sarebbe stata la prassi, ma senza denunce da parte delle presunte vittime. Negli anni, la politica locale non ha mai affrontato a fondo il problema della condizione degli occupati e, secondo un’inconsapevole visione keynesiana, ha pensato in primo luogo a individuare delle misure di sostegno al reddito nell’ambito di progetti alquanto incompleti di inserimento lavorativo. Quasi nessuno, a palazzo, ha posto l’attenzione sul problema dello sfruttamento del lavoro, come se non vi fossero stati segnali del fenomeno, in un contesto già molto provato dall’omertà quale riflesso del bisogno.
Ora i 14 lavoratori dei due supermercati di San Giovanni in Fiore, che alla loro azienda sono stati utili come alla comunità locale, hanno bisogno del sostegno della politica, mentre i sindacati sono all’opera per ottenere la cassa integrazione straordinaria. Qualcuno dei dipendenti racconta la puntualità nella corresponsione dello stipendio mensile, il che ha significato la garanzia di un’entrata fissa e quindi del mantenimento familiare.
Non si possono perdere questi redditi né le due attività commerciali, che per oltre un trentennio hanno svolto anche un’indubbia funzione sociale, di riferimento per anziani e perfino bambini. È arrivato il momento di chiamare in causa la politica, che ha il dovere di farsi sentire, di agire, di rimarcare che qui, a sud del Sud, a oltre 1000 metri sul livello del mare, 14 licenziamenti sono una nuova spinta per l’emigrazione e la conseguente desertificazione. Nuova Calabria, poi, non può pensare di andarsene alla chetichella, senza aver compiuto uno sforzo, moralmente dovuto, per aiutare, per proteggere i suoi lavoratori.
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