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Cronaca di un dramma

Un orrore indicibile, il caso di Pellaro scuote una comunità intera

Sara Genovese è accusata di aver ucciso due neonati. In un quartiere silenzioso, il dolore si mescola alla vergogna e al bisogno di capire

Pubblicato il: 10/10/2025 – 18:25
di Paola Suraci
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Un orrore indicibile, il caso di Pellaro scuote una comunità intera

REGGIO CALABRIA Le finestre sono chiuse, le persiane abbassate. Dalla casa in una contrada Pellaro, nella periferia sud di Reggio Calabria, non si vede né si sente nessuno. Dentro, in silenzio, c’è Sara Genovese, venticinque anni, accusata di aver ucciso i suoi due bambini appena nati.
Da qualche giorno si trova agli arresti domiciliari, con il braccialetto elettronico applicato alla caviglia, in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal giudice per le indagini preliminari su richiesta del procuratore Giuseppe Borrelli e del sostituto Chiara Greco. A far scattare la misura sono stati gli sviluppi dell’inchiesta condotta dalla squadra mobile di Reggio Calabria, che da oltre un anno lavora su una vicenda tanto drammatica quanto inspiegabile.
Sara Genovese è accusata di omicidio per soffocamento dei due neonati, di occultamento dei loro corpi e di soppressione di cadavere in relazione a un terzo bambino che avrebbe partorito tre anni fa e del quale ancora non è stato trovato il corpo.
Secondo la ricostruzione degli inquirenti, la giovane avrebbe partorito in casa, nascondendo poi i corpicini in un armadio, dove furono scoperti dalla madre, insospettiti dal cattivo odore proveniente dalla stanza. Intanto, è indagato in stato di libertà per favoreggiamento personale anche il fidanzato di Sara, che secondo gli investigatori avrebbe potuto aiutarla.

Quartiere sotto shock

Intorno alla casa, il quartiere tace. I vicini evitano di parlare, qualcuno abbassa lo sguardo, altri si chiudono dietro i portoni. Pellaro, da quindici mesi, vive sospesa tra l’incredulità e il dolore per una tragedia che ha travolto una famiglia normale, lasciando dietro di sé solo domande e silenzi.
Non è una storia di degrado sociale, né familiare. E questo aumenta i misteri sul duplice infanticidio. Sara, stando a quanto emerso finora, ha condotto una vita “normale”, fatta di amici, uscite in pizzeria e un piccolo impiego come commessa in un negozio di abbigliamento sportivo in un centro commerciale vicino a casa. Per questo adesso, c’è una comunità sconvolta, che ancora si interroga su come un dramma così estremo abbia potuto consumarsi tra le mura di una casa normale, lontana da contesti di degrado o fragilità evidenti.

Maria Rita Mallamaci: «Sono fatti che raccontano di visioni pressoché normali»

Abbiamo provato a capire meglio le dinamiche di questa triste vicenda, con la dottoressa Maria Rita Mallamaci, sociologa e vicepresidente nazionale dell’ASI – Associazione sociologi italiani.
«C’è la necessità di leggere questi fatti nella loro complessità. Sono fatti che purtroppo non riguardano solo Pellaro ma anche altre zone in Italia, sono fatti che raccontano di visioni pressoché normali. Di contesti territoriali semplici, senza grosse difficoltà, almeno apparenti. C’è un tessuto familiare semplice, ma accogliente, che ospita questi ragazzi e ragazze, spesso impreparati ad affrontare le conseguenze dei propri atti. Il problema non è immediatamente evidente: non ci troviamo di fronte a situazioni palesi, facilmente identificabili. Per questo serve uno sguardo attento, che tenga conto sia della dimensione culturale sia della diffusione delle informazioni, che evidentemente non raggiunge tutti.
Gli episodi recenti mostrano come una ragazza, ultima in ordine di tempo, sia arrivata a compiere reati che dall’esterno appaiono quasi inconsapevoli. In realtà, dietro queste azioni c’è una forma di consapevolezza, ma segnata dall’ignoranza: una mancata conoscenza che protegge, allo stesso tempo, dalla pressione e dal giudizio esterno. È come se a questi ragazzi e ragazze non arrivassero le informazioni più corrette e sicure, nonostante siano disponibili sul web e garantite dalla legge».

Che cos’è quindi, paura della famiglia, del giudizio?

«I contesti potrebbero risultare a volte giudicanti da chi è in difficoltà, in una difficoltà espressiva, in una difficoltà di maturazione, forse non completa, e probabilmente gioca molto, un ruolo molto forte, il senso della vergogna. La vergogna a livello sociale è quella situazione quel sentimento che, chi lo prova, subisce un blocco. Un blocco alla ricerca di soluzioni alternative, quelle di cui parlavo prima, soluzioni per farsi accompagnare, farsi consigliare, quindi dire all’esterno qual è il proprio problema senza la paura di essere giudicati. La paura del giudizio sociale, invece, la vergogna e anche a volte delle forme, diciamo meno chiare di capacità di leggere le possibilità ci portano a considerare fatti di questa natura molto gravi».

Che aiuto si può dare ai ragazzi?

«I ragazzi devono sentirsi visti e ascoltati. Negli ultimi anni sono state sviluppate numerose iniziative rivolte ai giovani, perché si è fatta una lettura attenta del contesto sociale in cui vivono. Noi sociologi ci occupiamo di questi temi da tempo, ma naturalmente non siamo gli unici. A loro vengono dedicate molte attività, a conferma dell’attenzione crescente verso le esigenze e le aspirazioni dei giovani.
Evidentemente esistono ancora alcune sacche sociali in cui questi problemi persistono. In questi contesti, è fondamentale evitare il giudizio: l’errore può capitare a chiunque, e non dovrebbe mai diventare il protagonista della storia personale di qualcuno. È importante che i giovani percepiscano che parti della società — familiari, vicini, associazioni sportive o di aggregazione, professionisti e, soprattutto, la scuola — sono presenti per offrire supporto, ognuno secondo le proprie possibilità, e contribuire a creare un contesto che aiuti a crescere e a superare le difficoltà». (redazione@corrierecal.it)

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