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Lasciarsi la mafia alle spalle per ritornare a vivere. «All’inizio è stata dura, ma sono rinata»

L’intuizione del giudice Di Bella. Donne e figli fuggono dai clan, sul tavolo una proposta di legge per consentire di cambiare identità

Pubblicato il: 18/11/2025 – 14:20
di Fabio Benincasa
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Lasciarsi la mafia alle spalle per ritornare a vivere. «All’inizio è stata dura, ma sono rinata»

COSENZA «Dove sono ora ho iniziato un’altra vita e sono rinata, sono molto affezionata alla famiglia alla quale mi avete affidata mi piace studiare, a scuola mi trovo bene e anche con le mie nuove amiche. Non voglio più tornare in Calabria, all’inizio è stata dura, ma adesso sono felice». Un messaggio di speranza, la luce dopo l’inferno vissuto in una famiglia macchiata dal potere criminale, regole e codici d’onore hanno devastato l’esistenza di una giovane, riuscita a fuggire da un mondo che non le apparteneva per ritrovare il sorriso. La storia di Gaia (utilizziamo un nome di fantasia) è simile a quella di tanti giovani, che come lei, hanno intrapreso un percorso di allontanamento da famiglie gravitanti negli ambienti criminali. E’ il risultato del progetto “Liberi di scegliere“, lanciato da Roberto Di Bella nel 2012, quando – da presidente del Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria – avviò un concreto percorso in grado di offrire un’alternativa esistenziale ai minori provenienti da famiglie mafiose. L’obiettivo è aiutare gli adolescenti ad allontanarsi dalle logiche che li legano alle famiglie mafiose, un’opportunità anche per donne e mamme che hanno ritenuto di non voler più vivere né crescere i figli in contesti dove l’illegalità è il fattore predominante. Circostanza cristallizzata in uno dei tanti sfoghi di una madre preoccupata per un figlio, «abituato a fare uso di armi» e «manipolato dal padre e dal nonno, persone pregiudicate e molto pericolose». Per questo la donna ha chiesto di essere aiutata a lasciare la Calabria insieme ai suoi figli: «Temo che mio figlio prenda una brutta strada e sia coinvolto in vicende di mafia, temo per sua incolumità, anche per l’età delicata che lo rende facilmente suggestionabile, e temo anche per la mia incolumità».

I boss ringraziano

Liberi di scegliere” ha convinto, nel corso degli anni, anche i boss più reticenti e devoti al credo mafioso a retrocedere rispetto ai propositi di una vita macchiata dai crimini. Tre boss apicali, infatti, hanno scelto di collaborare con la giustizia dopo aver ricevuto rassicurazioni sulla tutela dei figli. Oggi “Liberi di scegliere”, a distanza di 13 anni dall’idea illuminante di Di Bella, potrebbe diventare obbligatorio in tutti gli uffici giudiziari italiani. A prevederlo – scrive Chiara Diana su Corriere della Sera – «è un disegno di legge bipartisan che verrà licenziato nelle prossime ore dalla Commissione parlamentare antimafia». Di Bella, oggi presidente del Tribunale dei minorenni di Catania, racconta al CorSera: «Non esistono vite segnate per sempre: lo Stato, prima che il ragazzo commetta reati, può offrire una via di uscita verso la legalità, l’autodeterminazione e la felicita che ancora non conosce, perché cresciuto in un mondo chiuso e violento, fatto di logiche criminali e obbedienza totale al clan familiare». E’ Patrizia Surace, coordinatrice del progetto, a tracciare un bilancio: «Ad oggi abbiamo preso in carico circa 200 minorenni, di cui la metà inseriti nel programma con le proprie madri, e 34 donne in tutto, alcune diventate collaboratrici o testimoni di giustizia».

Cambiare vita, cambiare identità

Le storie di Giuseppina Pesce, Lea Garofalo, Maria Concetta Cacciola, Titta Buccafusca ricordano quanto sia difficile chiudere per sempre con le famiglie mafiose. Per questo motivo, la tutela delle madri e dei figli che riescono a separarsi dagli ambienti criminali rappresenta la più importante garanzia. La senatrice Vincenza Rando (in passato avvocata di Lea Garofalo) è prima firmataria di una proposta di legge (a breve sarà depositata in Senato), che – spiega al CorSera – «consente a queste persone di cambiare nome e cognome, come per i collaboratori di giustizia, e introduce un fondo per formare operatori e assicurare la stabilita degli aiuti durante il percorso di autonomia». (f.benincasa@corrierecal.it)

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